I numeriIl caso dell’Ilva è solo un esempio tra tanti. Lo Stato deve intervenire sulle riconversioni (e sulla formazione)

Davanti alla crisi dell’acciaieria più grande d’Europa c’è da prendere atto che il settore della metallurgia in Italia è già da anni in forte contrazione, anche se meno che in altri Paesi europei. C’è bisogno di un piano di reindustrializzazione e riqualificazione fermo però da anni

ANDREAS SOLARO / AFP

La cattiva notizia è che comunque andrà la vicenda dell’Ilva non dobbiamo illuderci: il calo dei lavoratori impiegati nel settore della metallurgia continuerà, come ha fatto in tutta Europa dal 2008 in poi, dalla vigilia della Grande Recessione. Nonostante l’Italia per una volta abbia sofferto un pò meno degli altri Paesi, come Francia o Spagna, un tale calo appare come un fatto strutturale.

La concorrenza globale e l’automatizzazione non perdonano. La riduzione un po’ ovunque è meno forte se parliamo di produzione in fonderia, mentre diventa importante nell’ambito della fabbricazione di laminati e tubi. Persino nel Paese che conta più operai impiegati in quest’ambito e che ha l’industria più forte, la Germania, vi è il segno meno.

La buona notizia è che in nessuno di questi Paesi negli ultimi anni l’occupazione è scesa, anzi vi è stata una ripresa che ha portato persino in Italia a un record di lavoratori, che hanno raggiunto e superato i 23 milioni. Certo, a costo di una bassa produttività, di stipendi d’entrata particolarmente miseri, ma il lavoro è aumentato, è innegabile.

C’è un grosso pericolo, tuttavia, ovvero che la compensazione della perdita di posti di lavoro nei settori più fragili dell’industria avvenga solo sulla carta, nei numeri degli istituti di statistica. Che concretamente il protagonista della crescita dell’occupazione non sia l’operaio 50enne che cerca un nuovo impiego dopo avere perso il proprio, ma solo il neo-laureato 23 enne o il manager 55enne che tramite le proprie connessioni sa come ricollocarsi.

E’ qui che entra in gioco ovunque in Europa il settore pubblico, sempre più indispensabile quanto più il mercato non riesce a creare un link tra il personale di settori in declino o stagnazione e i nuovi settori emergenti per cui i primi non hanno competenze. E’ ovvio, nessuno, neanche il sistema sociale più efficiente, neanche in Danimarca o Svezia, riuscirà a rendere l’operaio 50 enne uno sviluppatore Java. E tuttavia può prepararlo per altri settori anche industriali in cui vi sia maggior spazio.

Il problema italiano è che questo qui non accade. Siamo sempre stati tra i Paesi in cui è più difficile ricollocarsi. In cui si è sempre licenziato ma anche assunto meno, in cui il turnover è stato basso. Sono meno della media europea coloro che sono occupati da meno di 3 mesi, ovvero che hanno da poco cominciato un nuovo lavoro, il 3,4%. Veniamo superati in questo da Paesi che hanno avuto fasi di fragilità e disoccupazione peggiori della nostra, come Spagna e Portogallo, in cui si arriva al 6,2% e al 5,2% oltre che da quelli del Nord Europa, come Finlandia, Svezia, Danimarca, in cui le politiche attive per il lavoro sono prese maggiormente sul serio, e in cui si intraprende più spesso un nuovo lavoro anche oltre i 50 anni.

Ancora più indicative, perchè riguardano solo i disoccupati e non solo chi era semplicemente inattivo (come un neo-diplomato o un neo-laureato), sono le statistiche su quanti trovano un lavoro nel corso del trimestre di riferimento. A inizio 2019 quelli che nei tre mesi precedenti avevano ottenuto un impiego erano solo il 12,5% dei disoccupati in Italia. Solo in Bulgaria, Romania e Grecia andava peggio. Al primo posto, manco a dirlo, la Danimarca, con il 33,2%, e poi Svizzera, Paesi Bassi, Austria, a sorpresa il Portogallo con il 25,3%.

Da questi dati si capisce anche perchè così tanti, soprattutto tra coloro che appartengono agli strati più fragili della società, come gli operai Ilva, non credono agli automatismi del mercato, non hanno fiducia che una volta a spasso ci sarà qualche impresa che potrà assumerli per esempio approfittando della disponibilità ad accettare salari bassi. Ci vuole l’azione dello Stato, magari non la nazionalizzazione delle acciaierie, ma almeno investimenti mirati.

Lo Svimez ha fatto notare come le agevolazioni all’industria, in varia forma (misure come industria 4.0 o Zone logistiche o Economiche Speciali) sono costantemente diminuite negli anni in Italia, almeno rispetto al PIL. Nel 2017 si è arrivati allo 0,27% del PIL. Nel 1992 si era all’1,1%, sopra la media UE, e si era poi scesi allo 0,81% nel 1997 e allo 0,29% nel 2007. Ma solo nel 2017 siamo scivolati all’ultimo posto tra i principali Paesi europei, con la Germania che è giunta all’1,29%. Germania che per esempio quest’anno ha stanziato 40 miliardi da qui al 2038 per la riconversione delle aree minerarie, che poi sono anche tra le più depresse, le Taranto sul Reno. E non si tratta solo di riqualificazione dei capannoni e delle fabbriche, ma chiaramente anche delle competenze.

Le agevolazioni per l’industria varate per l’Italia non hanno interessato il Mezzogiorno più di quanto gli spettasse guardando alle proporzioni della popolazione, che appunto risiede per un terzo al Sud e nelle Isole.

Dopo tanti soldi buttati nell’assistenzialismo e nelle cattedrali nel deserto dei decenni scorsi c’è in molti una sorta di allergia a sentir parlare di intervento pubblico, al Sud per giunta. Forse l’unico modo per superare le giuste obiezioni è spostare il peso degli incentivi sul capitale umano e su sgravi per l’apertura di nuove imprese, lasciando perdere l’illusione di uno Stato imprenditore. Certo, non si può pensare di non fare nulla, o l’alternativa soprattutto al Sud sarà l’emigrazione per i più giovani, anche i meno istruiti, e l’elemosina di Stato tramite il reddito di cittadinanza per tutti gli altri.

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