Dicesi partito del Pil quel movimento economico-industriale formatosi spontaneamente per incentivare lo sviluppo produttivo e promuovere misure che vadano a invertire la rotta rispetto alla situazione stagnante dell’economia nazionale. Prendiamola come bozza per una definizione un po’ più articolata, ed elegante, che spetterà alla dottrina politica formulare. Il senso è più o meno questo. Volendo restare più giornalistici, quindi terra-terra, il partito del Pil è quell’insieme di soggetti che, ogni volta che l’Istat pubblica una congiunturale negativa sulla produzione industriale – come adesso: -0,4% a settembre su agosto 2019; -2,1% sullo stesso mese del 2018 – viene contattato dai cronisti per un commento a caldo, uno sprone alla politica affinché faccia qualcosa, perché così non si può andare avanti. Per essere poi social infine – così entriamo nell’algoritmo – del partito del Pil va detto che ha fatto suoi hashtag quali #politicaindustriale, #industria40, #lavoro, #innovazione, ma anche #greeneconomy e #formazione.
Il nome circola ormai da qualche anno, ma il concetto è ancora in fase di fluida definizione. Certamente siamo lontani dall’identità di un partito del Secolo breve. E questo è un bene. Il partito del Pil infatti non ha nessuna delle ritualità, gerarchie e linee programmatiche di quei soggetti. Per il semplice motivo che non è un partito politico. È piuttosto una nebulosa di realtà, individuali e non, differenti praticamente in tutto, ma accomunati dalla consapevolezza che nella crescita economica sta la chiave di volta di tutti i problemi. Sindacati, imprenditori, associazioni di categoria, professori, analisti e giornalisti. Questi più o meno gli iscritti al partito. Magari anche qualche elettore e cittadino che di queste cose ne mastica solo perché è un attento e libero osservatore.
Tanta roba! Quando mai l’Italia ha avuto una santa alleanza così trasversale? In questi giorni si parla di nuovi contenitori politici, amicizie che per far fronte comune potrebbero sbocciare tra attori che, fino all’altro ieri, era inimmaginabile potessero parlarsi. Di fronte a teorie, congetture e simulazioni però, il partito del Pil appare come l’eventualità più realizzabile. Al confronto con le geometrie variabili che caratterizzano da sempre il panorama politico italiano, un pacchetto di mischia fatto di gente che produce e lavora, e che quindi sa bene come vanno le cose è l’ipotesi più realistica e perseguibile. E infatti c’è chi nel partito del Pil ripone auspici di una certa sostanza. Per esempio Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di lunedì, il quale sostiene che «potrebbe essere più forte di quanto i nemici immaginino».
Come scrivevano osservatori di un certo livello, per esempio il Centro Einaudi, la previsione era costruita sulla sequenza “what if”, dove l’evento “if” era definito senza sfumature in partenza
Ma allora cosa serve ancora a chi ha davvero a cuore il destino economico del Paese per fare il grande passo? I contenuti ci sono. Le persone carismatiche pure. Forse anche i soldi, ma è poco elegante entrarvi in dettaglio. Eppure si avverte un blocco, una sorta di sudditanza psicologica nell’attaccare ora che l’avversario ha il ventre molle scoperto. Per chiarire, riprendiamo un esempio di qualche anno fa. Andiamo a metà giugno del 2016. Tutto un altro mondo. Mancano circa due settimane al referendum sulla Brexit in Uk, cinque mesi alle presidenziali americane e sei al referendum in Italia sulla riforma costituzionale. Le previsioni ottimistiche sono di gran lunga più solide delle pessimistiche. Eppure il Centro Studi Confindustria esce con una slide che ha fatto storia. «Se l’Italia dice No al referendum – si legge – si perdono 4 punti di Pil e 600mila posti di lavoro». Parte subito il treno di critiche, obiezioni e pure insulti. L’aquilotto fa terrorismo psicologico, ma soprattutto fa campagna elettorale.
Con il senno di poi, si può dire che il metodo faceva acqua da più parti. Come scrivevano osservatori di un certo livello, per esempio il Centro Einaudi, la previsione era costruita sulla sequenza “what if”, dove l’evento “if” era definito senza sfumature in partenza: la riforma aiuta la governabilità, la governabilità è buona cosa, ergo, se viene a mancare, viene meno la fiducia e così si ha crisi. L’“if” veniva mostrato con un solo percorso, senza diramazioni. L’obiezione alle previsioni di Confindustria era che l’Italicum, la legge elettorale prevista dal referendum e che avrebbe dovuto garantire la governabilità, avrebbe potuto favorire le forze politiche meno “governative”. Di conseguenza non era detto che l’economia e i mercati avrebbero necessariamente mal reagito la sconfitta dei “sì”.
Si parla di 160 crisi aziendali aperte, che coinvolgono circa 250 mila lavoratori. Messa così, questa non è una bomba sociale, ma l’anticamera di un’Armagheddon
Tuttavia, al netto di quelle obiezioni – comunque non di poco conto – non si capiva per quale motivo gli imprenditori non potessero prendere posizione su una questione politica dalle evidenti ripercussioni economiche. Fatto è che, ancora prima del risultato del referendum, quando ancora si viveva nel mondo di ieri, Confindustria tirava il freno a mano. Dalla politica degli strali, il partito del Pil – di cui Confindustria di lì a poco sarebbe stata indentificata come la cabina di regia – passava alla linea di cautela. Agli attacchi frontali e sistematici, preferiva gli assoli. Vedi le assise di Verona dello scorso anno, quando intorno a Boccia si sono strette a coorte frotte di imprenditori di ogni identità e dimensione. Cammei anche pregevoli, certamente, ma del tutto inefficaci a esercitare quell’adeguata pressione che un gruppo di interesse economico, se ha le idee chiare e la volontà di azione è genuina, deve effettuare sui propri interlocutori politici.
Non vogliamo parlare di sudditanza psicologica? Allora diciamo che si avverte, ormai da anni, un braccino corto a frenare, anzi, a stoppare sul nascere le brutte storie quali decrescita felice, ambientalismo anti-industriale, nazionalizzazioni. Gli imprenditori hanno tutte le possibilità, e i diritti, per alzare la voce, per picchiare duro contro chi sta davvero aprendo questo paese come una scatoletta di tonno. Eppure a regnare è l’intempestività. Lo dimostrano quelle quasi 48 ore che hanno separato la prima dichiarazione pubblica di Arcelor Mittal ad abbandonare Taranto, dalla reazione del presidente Enzo Boccia. Due giorni, più o meno, di silenzio. Inspiegabile. Inatteso. Ma soprattutto due giorni durante i quali Federmeccanica e Federacciai si sono invece espresse. Come a dire le sorelle gregarie sono state più veloci e non si sono adeguate alle lentezze della nave ammiraglia. Sarà perché siamo sul finire della presidenza Boccia, ma un informale “semestre bianco” non dovrebbe fare da intralcio a interventi a gamba tesa – perché no? – per bloccare ciò che è male per tutti quanti.
Il rischio infatti, di fronte a un malessere che non si arena sull’Ilva, è che altre realtà prendano il sopravvento. Whirlpool, Alitalia, il matrimonio Fca-Psa. I dossier fonte di paura e, di conseguenza, potenziali bacini dai quali le forze politiche più estreme e populiste possono attingere ulteriore consenso sono tanti. Si parla di 160 crisi aziendali aperte, che coinvolgono circa 250 mila lavoratori. Messa così, questa non è una bomba sociale, ma l’anticamera di un’Armagheddon.
Tuttavia, non siamo qui per scrivere un’Apocalisse in versione 4.0. Al contrario. Siamo stanchi di ascoltare chi diffonde la paura e delinea scenari da incubo. Non ne possiamo più di profezie campate su percezioni falsate. Siamo convinti che il partito del Pil sia qualcosa di più di un’accezione che suona bene per chi scrive e resta di esclusiva comprensione degli addetti ai lavori. Vi identifichiamo una possibilità di uscire dalle secche. Una realtà attiva, appunto senza precedenti nella storia più recente in Italia, capace di mettere insieme chi il Paese lo conosce davvero. Resta solo da capire: il partito del Pil esiste davvero oppure ci siamo fatti noi un cinema mentale?