In fondo che un editore di grande rispettabilità come Rizzoli abbia pubblicato il tuo libro di poesie, o sarebbe meglio dire di versi liberi, è più di un successo, è una consacrazione. È il segnale che alla fine, contro i pronostici, il mondo là fuori si è piegato alla tua modesta ostinazione e ha preso per buone le tue idee, per quanto forse non le abbia capite veramente fino in fondo (ammesso che ci sia qualcosa da capire). Flavio Pardini, 30 anni, in arte Gazzelle come il modello delle Adidas ma con una z in più, in un paio di stagioni è diventato un cantautore molto pop di fama, capace di fare sold out nelle grandi arene nazionali, mettendo in scena il suo set musicale di estrema referenzialità per un certo gruppo anagrafico – forse tra i colleghi è il più generazionalmente definito, neanche fosse uno di quegli articoli di sociologia spicciola di Repubblica, in cui si annuncia il varo di un’altra Generazione X, Y, Z, Zero, etc. Gazzelle, lo testimoniano le foto, l’eterno K-way, la testa bassa, sembra l’incarnazione di quegli stereotipi, che a ben vedere avranno parecchio di vero, perché lui è così, mica puoi continuare a fare la parte all’infinito.
Ma torniamo al libro, Limbo, perché è il fattore che dà tridimensionalità a questa vicenda. Di sicuro, qualcuno alla casa editrice avrà pensato di fare un buon affare spedendo sugli scaffali lo smilzo volumetto di pensieri con la penna in bocca di questo piccolo Damon Albarn romano, intravedendo migliaia di suoi coetanei col libricino in tasca, per qualche fuggevole lettura nel corso di un tragitto nella metro. “Ecco / ora capisci / o almeno lo spero, / quello che ho in testa” – cose così, una settantina di haiku caserecci di questo tenore, cantici di una normalità che trasuda intimità, timidezza, difficoltà di elaborare, ma che esprimono un bisogno di dire, di lasciare un qualche segno. Prescindendo dal valore letterario, non è escluso che un simile messaggio in bottiglia trovi degli interessati a raccoglierlo e a portarlo con sé.
Perché questo è il segreto di Gazzelle, quando ci si sposta a seguirlo nel suo terreno di gioco preferito, ovvero le canzoni: è un buon companion, autore di un canzoniere che è un compendio di una condizione così diffusa da sembrare un’epidemia. Si parla del vivere immersi in una certa rassegnata malinconia, rimediando con l’ironia all’assenza di eccezionalità, col fatalismo all’insoddisfazione, e dando per scontati lunghi periodi di noia (il veterano Zampaglione avrebbe varato per lui l’etichetta di “cantautore noir”).
Una medietà aggrappata alla sufficienza, una mediocrità un po’ crogiolata, che pure viene accolta con un affetto e una solidarietà che le attribuisce di diritto un valore
Il bello è che questo destino sfortunato, questa caratterialità che pare un mainstream psicologico condiviso adesso costituisce a tutti gli effetti un “genere musicale”. Vivere alla meno peggio (il suo slogan si direbbe “In fin dei conti sto bene”), al riparo dai pericoli, dagli sguardi indiscreti, dalle brutte figure e dalle responsabilità troppo grandi: niente sfide memorabili per i ragazzi pronti a sbarcare nei loro trent’anni dopo aver traversato un’educazione alla vita dietro un vetro protettivo, ma non per questo, disposti a rinunciare di raccontarsi, anzi di storicizzarsi. Per esempio con le canzoni di Calcutta, di Tommaso Paradiso e di Gazzelle. Che di questo stile è l’interprete più puramente pop e quello che con più naturalezza ne maneggia la lingua nativa, dichiarando cose come «è il nostro linguaggio, quello della nostra generazione. Così come Venditti e Baglioni avevano la loro».
Non fa una piega. L’ultima conseguenza del tutto è Post Punk, la raccolta appena uscita che – nel solco iper-produttivo di Gazzelle – contiene la riproposizione di Punk, suo secondo album di un anno fa, integrato dai due singoli usciti nel frattempo e da due brani inediti. Una strategia inconsueta anche questa, che agisce su un concept ormai desueto come quello dell’album, cercando soluzioni diverse: il work in progress ad esempio, che abbini la permanenza di marketing con l’aggiornamento, la rivisitazione la continuità, l’evoluzione. Le quattro canzoni nuove, vistosamente, proseguono e ampliano i discorsi e le sonorità di mesi prima. E il procedimento assume senso, ha un gusto meno sacrale, ma più all’ordine del giorno.
Un’ultima cosa va detta. Le canzoni di Punk, le novità di Post Punk, i relativi videoclip, niente di tutto questo fa veramente saltare sulla sedia per qualità: la voce di Gazzelle è abbastanza educata, ma non è certo quella di Kurt Cobain, la sua scrittura musicale percorre volutamente il solco di una dolce prevedibilità, le sue parole talvolta azzeccano delle definizioni, altre si affidano al neorealismo di dialoghi rubati a due innamorati seduti davanti a noi sull’autobus. Insomma una medietà aggrappata alla sufficienza, una mediocrità un po’ crogiolata, che pure viene accolta con un affetto e una solidarietà che le attribuisce di diritto un valore. Ecco, proprio di “valori” vorremmo parlare: è un valore assoluto quello di un musicista italiano come questo? O è connesso ai tempi che corrono, alle atmosfere in cui viviamo? Ma soprattutto: hanno senso queste ansie di collocazione, estranee alle intenzioni del buon Gazzelle e al gusto del suo pubblico? O tutto semplicemente va così, compreso il suo successo, che è il risultato di una congiunzione di intenti e di bisogni? Forse bisogna provare ad archiviare il procedimento dei confronti, attribuendo ciascuno al suo tempo, senza chiedersi se Petrarca fosse migliore o peggiore di Pasolini. E dunque il supremo De Gregori e il gracile Gazzelle. Forse la soluzione è questa.