A Palazzo Chigi, per trattare il destino dell’Ilva, sono arrivati Lakshmi e Aditya Mittal, padre e figlio, amministratore delegato e direttore finanziario, i due pesi massimi del colosso dell’acciaio franco-indiano. Di fronte, il plotone composto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i ministri esponenti di tutte le anime del governo, più o meno interessati dal destino del polo siderurgico di Taranto: Patuanelli, Gualtieri, Provenzano, Catalfo, Speranza, Bellanova e il sottosegretario Turco. Tre ore e mezza di vertice tesissimo, per sentirsi dettare alla fine dai Mittal la lunga lista delle pesanti condizioni per la tregua e la riapertura del dialogo su Taranto. Il governo mette subito sul tavolo la reintroduzione dello scudo penale, ma la maggioranza è tutt’altro che compatta sul salvacondotto, con i grillini che scalpitano e minacciano crisi. In ogni caso, all’azienda non basta più. Mittal, con il mercato dell’acciaio a picco, i dazi e la crisi dell’automotive, alza la posta e chiede ai gialorossi la riscrittura del contratto sottoscritto un anno fa, con l’abbattimento dei livelli di produzione e anche di quelli occupazionali. L’azienda prevede 5mila esuberi in totale, a meno che lo Stato non metta mano al portafogli e paghi la cassa integrazione.
«Condizioni inaccettabili», ripete più volte Conte durante la conferenza stampa tenuta dopo un consiglio dei ministri di tre ore. Il governo sembra voler resistere e rilanciare la palla nel campo di Mittal. Salvo poi specificare che «il governo è disponibile a una finestra negoziale» con Mittal e che «è pronto a fare tutto quello che è necessario» e a «valutare tutti gli strumenti a nostra disposizione per garantire la continuità dei livelli produttivi, occupazionali e la bonifica ambientale». I toni del premier sono duri. La miccia è stata accesa con l’eliminazione dell’immunità, ma gli scenari più bui sembrano avverarsi. «È scattato l’allarme rosso», dice Conte. «L’Ilva diventa assoluta priorità per il governo, 24 ore su 24. Questo Paese non si lascia prendere in giro, è un Paese serio. Se l’Italia fa una gara pubblica, va rispettata». Il canale di comunicazione resta aperto: l’esecutivo si aspetta una controproposta da ArcelorMittal entro 48 ore. Per il pomeriggio del 7 novembre, intanto, i sindacati sono convocati a Palazzo Chigi. I metalmeccanici di Fim hanno già proclamato lo sciopero di 24, spaccando il fronte sindacale. Fiom e Uilm sciopereranno domani.
Ma davanti al pericolo della esplosione della bomba sociale, con 11mila licenziamenti più l’indotto, dopo il rocambolesco metti-e-togli sull’immunità, il coltello dalla parte del manico ce l’ha Mittal. Dal governo non negano che si sta lavorando già a piani B, mentre Sajjan Jindal arriva in queste ore a Piombino per fare il punto con i manager dello stabilimento, e si fa strada l’ipotesi di un ritorno degli stabilimenti nelle mani dei commissari. Ma su questo fronte le bocche sono cucite. E il silenzio da parte del governo è stato il leit motiv di una giornata lunga e tesissima.
Davanti al pericolo della esplosione della bomba sociale, dopo il rocambolesco metti-e-togli sull’immunità, il coltello dalla parte del manico ce l’ha Mittal
Che volesse essere Mittal a dettare le regole del gioco è stato chiaro sin dalle prime ore del mattino, nella giornata dell’atteso vertice a Palazzo Chigi. A mezz’ora dall’inizio dell’incontro, il colosso dell’acciaio va in pressing sul governo, avviando formalmente la procedura per la cessione del ramo italiano. L’azienda mette nero su bianco la riconsegna allo Stato di tutti e 12 i siti produttivi, tra cui quello di Taranto, e dei 10.777 lavoratori annessi. Portandosi così già sull’uscio della porta ancora prima dell’inizio della trattativa.
Una notizia che mette pressione ai giallorossi, divisi più che mai sullo scudo penale. Mentre da Taranto a Genova i lavoratori sono in agitazione e la Fim Cisl rincara la dose proclamando da sola lo sciopero e lanciando l’allarme su altri 4mila operai delle aziende di appalto e sulle conseguenze della chiusura del polo anche sui distretti della meccanica lombardi.
Un’ora di ritardo e poi via a tre ore di vertice fiume. ArcelorMittal, il giorno dopo la causa intentata davanti alla magistratura, elenca le condizioni per restare. Uno: riscrivere il contratto siglato un anno fa, abbassando i livelli produttivi a 4 milioni di tonnellate l’anno e quindi anche i livelli occupazionali, con 5mila esuberi, a fronte degli scenari di mercato negativi. In alternativa, il governo dovrebbe mettere in campo un intervento cospicuo per la cassa integrazione ed evitare la perdita dei posti di lavoro. Due: la questione spinosa dell’altoforno 2. L’azienda considera impraticabili i tempi imposti decisi dal tribunale di Taranto dopo la morte dell’operaio Alessandro Morricella, travolto da una colata di ghisa, pena la chiusura entro il 13 dicembre prossimo. Anche perché, spento quello, ci sarebbero problemi anche per altri due forni a caldo. I Mittal chiedono quindi una norma per evitare lo spegnimento e continuare a usare l’altoforno.
L’eliminazione dello scudo penale, dopo averlo tolto e reintrodotto nell’arco di pochi mesi, ha mostrato la fragilità politica dell’esecutivo e di certo ha fornito un assist a Mittal
«ArcelorMittal non è in grado di rispettare il piano aziendale», precisa in conferenza stampa il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Ma l’eliminazione dello scudo penale, dopo averlo tolto e reintrodotto nell’arco di pochi mesi, ha mostrato la fragilità politica dell’esecutivo e di certo ha fornito un assist a Mittal. Che nel bilancio 2018 fotografava le tinte fosche del mercato dell’acciaio. Tanto da decidere, già a maggio 2019, la riduzione della produzione di acciaio negli impianti francesi, tedeschi, polacchi e spagnoli. Una riduzione, come quella che chiede per Taranto, che perde 2 milioni di euro al giorno. In alternativa, c’è l’addio. Non a caso, gli atti presentati dall’azienda non sono stati ritirati.
La reintroduzione dell’immunità penale sembra passare quindi in secondo piano. Ma la questione è ancora calda nella maggioranza. «Non è questa la vera causa del disimpegno dell’azienda», ripete Conte. «Il governo non è responsabile. L’azienda ritiene che agli attuali livelli di produzione non riesca a sostenere gli investimenti». In mattinata, il ministro del Sud Giuseppe Provenzano, prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva spiegato subito che l’esecutivo stesse pensando a una «norma generale astratta valida sia per l’Ilva di Taranto sia per le altre aziende».
Sul nuovo scudo la maggioranza si mostra tutt’altro che compatta. Il Consiglio dei ministri inizia non a caso con un’ora e mezza di ritardo. I Cinque stelle, promotori dell’emendamento che ha cancellato l’immunità, dicono no a un decreto sul salvacondotto e minacciano far mancare la maggioranza in Parlamento. Pd e Italia Viva insistono per annunciare che venerdì il cdm varerà la norma con il ripristino della tutela legale. Alla fine l’esecutivo non prende nessuna decisione. La partita a scacchi è appena cominciata. Mittal ha messo da poco sul tavolo 5mila esuberi, la soluzione è tutt’altro che vicina, ma la maggioranza già scricchiola e non poco. Mentre la Lega, con i suoi parlamentari pugliesi, prende i pop corn e annuncia già picchetti e manifestazioni davanti ai cancelli di Taranto.