Chi mai investirà più in Italia?Sull’Ilva si abbatte il sovranismo giudiziario

La procura di Milano in difesa dell’interesse economico nazionale e ora Arcelor deve decidere se avviare l’impianto rischiando l’accusa di disastro ambientale o spegnerlo ed essere perseguita per sabotaggio

Andreas SOLARO / AFP

Qualche giorno fa questo giornale aveva ipotizzato un ruolo sempre più rilevante della magistratura nel prosieguo della vicenda Ilva, gli ultimi sviluppi superano però anche quella facile previsione perché le magistrature che scendono in campo sono ben due. Il dato e la vicenda impongono una qualche riflessione non solo sulla particolare vicenda ma sul futuro, non esattamente rasserenante dei rapporti tra corpo giudiziario e autonomia della politica.

Ha iniziato la Procura milanese, in virtù di una “primauté” in tema di reati economici legata alla sua competenza territoriale sugli illeciti in Piazza Affari nonché per il fatto che Arcelor come l’ex ILVA dei fratelli Riva ha sede legale in Milano. Proprio questa circostanza spiega le ragioni e le finalità del comunicato e delle dichiarazioni rilasciate dal procuratore capo Greco sul «faro aperto» (lessico borrelliano, epoca “Mani pulite” pre-Berlusconi) sulla vicenda di Taranto e sul comportamento di Arcelor. Ancorché la classificazione burocratica del procedimento faccia riferimento ad «atti non costituenti reato» (modello 45), essa ha lo scopo di consentire accertamenti in vista di possibili sviluppi giudiziari.

Gli accenni riportati dalla stampa alla verifica su «ipotesi di reato» e in particolare se l’ex Ilva «sia stata depauperata dalle iniziative del gruppo siderurgico» lasciano intendere una volta di più che una nuova insolvenza dell’azienda aprirebbe procedimenti giudiziari per gravissimi reati societari nei confronti degli amministratori nominati dal colosso indiano.

Appare difficile dimostrare come Arcelor possa tenere in funzione un’azienda che inquina senza commettere ulteriori reati

Tocca però ricordare, cosa che nessun organo di stampa si è premurato di fare, che a oggi l’unico processo celebrato a carico dei Riva si è concluso con una assoluzione a luglio di quest’anno, al termine addirittura di un semplice giudizio abbreviato, vale a dire senza bisogno neanche di un processo in tribunale (https://www.ilsole24ore.com/art/svolta-processo-ilva-assolto-fabio-riva–video-tribunale-milano-scagiona-l-imprenditore-dall-imputazione-bancarotta-fraudolenta-ACZRvyW) con la formula «perché il fatto (il reato di bancarotta) non sussiste». Il che ha portato qualcuno al paragone con la clamorosa vicenda dei Ligresti tutti assolti a eccezione di una delle sorelle che aveva patteggiato per essere scarcerata. I Riva hanno pagato risarcimenti miliardari.

Come se ciò non bastasse, sul proscenio si è mossa anche la procura locale del capoluogo pugliese: i commissari, raccontano le cronache, hanno infatti presentato agli inquirenti tarantini un «esposto-denuncia» (sic!) ipotizzando a carico degli amministratori dell’Ilva nientemeno che un reato del corporativismo fascista caduto in disuso e di cui non si ha memoria nei repertori di recenti applicazioni nell’italia post bellica: il reato di “distruzione dei mezzi di produzione” meglio definito come sabotaggio economico. Il reato fa parte di un corpo di norme nel codice penale denominato «dei delitti contro l’Economia pubblica, l’industria e il commercio» la cui classificazione rimanda direttamente alla dottrina dello Stato corporativo fascista che ispirò il fascistissimo autore del codice Alfredo Rocco.

Basti pensare che spicca ancora come reato perseguibile la «coazione alla pubblica autorità mediante serrata o sciopero» che punisce gli autori di proteste sul lavoro «con lo scopo di costringere l’autorità a dare o ad omettere un provvedimento, ovvero con lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa». Articoli di tale dubbia compatibilità costituzionale tanto che nei repertori ha destato clamore una rarissima pronuncia del 2013 del Tribunale di Siena che condannava per sabotaggio un dipendente di una azienda vinicola che per reazione ad un licenziamento aveva distrutto delle botti di pregevolissimo Brunello.

Vero che anche del più bieco degli articoli di legge si può tentare una lettura “costituzionalmente conforme”, in questo caso particolarmente ardua se non altro perché appare difficile dimostrare come Arcelor possa tenere in funzione un’azienda che inquina senza commettere ulteriori reati, ma l’iniziativa tarantina dimostra inequivocabilmente come sia corta la coperta giuridica della vicenda.

Come l’asino di Buridano, Arcelor deve decidere se far funzionare le macchine rischiando l’accusa di disastro ambientale o spegnerle ed essere perseguita per sabotaggio dell’economia nazionale. Senza contare che il reato in teoria potrebbe essere contestato anche al gip che nel 2013 sequestrò l’azienda ordinando la chiusura degli altiforni.

Ma il rischio è anche dello Stato italiano: numerose pronunce della Corte Costituzionale e delle Corti europee bocciano il cosiddetto “Giudice di scopo”, cioè la giustizia non può perseguire interessi di parte, perpetrare crociate politiche e criminali, tantomeno difendere gli interessi economici del paese: deve accertare torti e ragioni tramite un processo equo e imparziale che tenga conto delle ragioni delle parti, in un sistema internazionale di economie integrate.

Una magistratura paladina delle ragioni dei deboli mediante il ricorso a norme corporative che colpivano i deboli rischia di compiere un arbitrio con conseguenze sanzionatorie gravi per il paese. Conviene ricordare che l’articolo 16 del Trattato Europeo tutela la libertà d’impresa. Qualcuno, nel fervore del momento, se n’è dimenticato. Il sovranismo giudiziario che si fonde con quello politico è una miscela esplosiva: il peronismo mediterraneo.

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