Economia sfericaViaggio a Nairobi, la capitale mondiale degli slum

Kenya, Perù, Cambogia, Brasile, sono tanti i Paesi dove le baraccopoli, ai margini delle grandi città, costituiscono l'emblema della povertà assoluta. Migliaia i bambini costretti a vivere tra le lamiere e i rifiuti, e che finiscono a lavorare come schiavi

SIMON MAINA / AFP Nairobi,Kenya

Non so se qualcuno di voi abbia mai fatto esperienza di quell’inferno chiamato slum. Io sì, molte volte. E lo voglio raccontare. Quello da cui sono appena tornato si chiama Dandora e si trova nei pressi di Nairobi dove sono stato con la missione umanitaria ‘Food4Life’ di Fondazione Mediolanum Onlus in supporto di Alice for Children e Amani for Africa.

A Dandora lo scenario desolante della più grande discarica a cielo aperto del Kenya, si estende a perdita d’occhio e non lascia scampo. Infatti, è ritenuta l’area più inquinata del Pianeta. Livelli molto alti di piombo e altri metalli pesanti sono presenti nel sangue dei bambini che vivono nelle baraccopoli e negli slum circostanti. Dovunque si trovino nel mondo, le baraccopoli sono la rappresentazione sempre identica della stessa povertà. Quella assoluta. Quella che rende ultimi sulla terra e condannati ad un vuoto di futuro chiunque abbia la sorte di nascervi.

Che fossero a Lima o in Cambogia, a Rio de Janeiro o in Nicaragua, gli slum che ho visto sono tutti luoghi in cui i servizi che noi riteniamo di base tanto da darli per scontati, come acqua corrente e elettricità, sono invece chimere inarrivabili. I canali di scolo a cielo aperto al contrario, sono una realtà pestilenziale di infezioni e malattie. A Nairobi, città di cinque milioni di abitanti, vive negli slum il 60% della popolazione. Ce ne sono 110! Quella di Korogocho, per esempio, che è la seconda per grandezza e densità di popolazione, si mostra anch’essa come una agghiacciante distesa di lamiere dominata dall’enorme montagna di rifiuti di Dandora. Chi come Alice for Children e Amani for Africa, presta la sua opera in queste contrade, ci dice che qui le famiglie sono mediamente di sei persone che vivono strette in baracche di 10 metri quadrati per le quali spesso pagano un affitto di 10 dollari al mese.

Esiste una filosofia che abbiamo imparato a conoscere dai discorsi di Nelson Mandela, racchiusa nella parola Ubuntu che rappresenta un concetto di umanità intesa come quel nesso che unisce le vite di tutte le persone

La loro aspettativa di vita è di 30-40 anni. Decisamente meno che nel resto del paese. Il 60% della popolazione di questo slum è malato di AIDS, per la maggior parte si tratta di donne e bambini. Ma quel che mi è veramente difficile da accettare è che qui diecimila persone si ritengono forza lavoro e il loro lavoro consiste nella raccolta differenziata fatta a mano tra i rifiuti che a Dandora arrivano a un ritmo di 850 tonnellate al giorno. Il 55% di questi lavoratori è fatto di bambini. Il loro contributo è necessario per il bilancio familiare. Il contributo di una loro giornata di lavoro a mani nude a frugare tra i rifiuti porta in famiglia meno di due euro. Lo ridico usando un tono di voce più forte: meno di due euro!

Eppure, per quanto esigua possa sembrare ai nostri occhi, per quelle famiglie rappresenta una cifra essenziale. Per questi esseri umani, bambini donne e uomini, non c’è che la discarica. È la loro dimensione, la loro casa e la loro fonte di reddito. Ci vivono, la respirano, ne traggono nutrimento, i loro figli riescono finanche a giocarvi. E forse, sono finanche intimamente grati agli uomini più fortunati di Nairobi per il loro quotidiano nuovo tributo di immondizia su cui poter contare per sopravvivere.

Nell’Africa sub-Sahariana esiste una filosofia che abbiamo imparato a conoscere dai discorsi di Nelson Mandela. Ma che poi abbiamo imparato a dimenticare. Questa filosofia è racchiusa nella parola Ubuntu che in lingua bantu rappresenta il concetto di umanità intesa come quel nesso che unisce le vite di tutte le persone che dunque “sono perché noi siamo”. Ho voluto raccontare di Dandora perché dobbiamo tutti imparare a saperne di più per trovare alternative. Perché se “Io sono perché noi siamo”, continuando a essere lo specchio di questo tipo di mondo, potremo dire di essere stati umani?

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