Un odore inconfondibile, una distesa piatta di acqua azzurra, i tubolari gialli e blu che separano le corsie, i blocchetti da cui tuffarsi, le panchette a bordo vasca con asciugamani e accappatoi: le piscine sono tutte più o meno uguali, che si tratti di quella in cui ti alleni con il sogno nel cassetto di partecipare un giorno alle Olimpiadi o di quella in cui spingi solo di braccia perché le gambe non le senti più.
Forse anche per questo non sono poi così curioso di andarla a vedere, quella della Fondazione Santa Lucia, il centro di riabilitazione in cui sono ricoverato già da un paio di settimane.
So che in fondo di quello si tratta: una grande vasca con dell’acqua dentro, niente che abbia questa gran voglia di affrontare considerando che proprio non immagino come sarebbe entrarci di nuovo con uno scopo ben diverso rispetto a ciò che mi ha motivato in anni e anni di sacrifici, fatica, chilometri e chilometri e ancora chilometri macinati ripetendo sempre gli stessi identici movimenti, cercando di renderli ogni volta più perfetti, più fluidi, più precisi per battere un record, per ottenere un buon tempo, per fare quello che ho fatto praticamente tutti i giorni dai tre ai diciannove anni. Nuotare.
Me lo chiedono tutti, in continuazione, se l’ho vista, se ci sono stato. Io faccio finta di niente, sorvolo sulla questione, però lo so che in realtà il mio non è disinteresse, ma paura. Una paura tremenda. Paura di rivedere la piscina da lontano, seduto su una sedia a rotelle, paura che non ci entrerò più, paura che tutto sia davvero cambiato per sempre. E quindi per parecchi giorni l’ho evitata.
Essere qui significa che il peggio è passato e posso cominciare ad andare avanti, a prendere confidenza con il percorso di riabilitazione che mi aspetta
A un certo punto però non ce la faccio più a mettere a tacere quella vocina che mi suggerisce di andarla almeno a vedere, solo per dare un’occhiata. Il richiamo del cloro ha la meglio, è troppo forte per continuare a ignorarlo e così mi decido ad affrontare la vista della piscina, uno scenario al quale sono più che abituato ma che per la prima volta osserverò da una prospettiva diversa, con occhi diversi.
Guardandola da seduto e non dall’alto del mio metro e novantadue, l’acqua è molto più vicina, se mi chinassi un po’ riuscirei forse anche a sfiorarla. Non ho il coraggio di provarci però. Non mi avvicino nemmeno: sono seduto qui, bloccato, e se sporgendomi cadessi rischierei forse di affogare. Ridicolo, lo so, ma non posso evitare di pensarlo. Io, un nuotatore professionista, che ho paura di cadere in acqua. Mi incute un timore che mai avrei pensato di sperimentare.
È un pomeriggio come un altro, ho finito le terapie, fuori piove. Sono in camera mia, su un letto d’ospedale. Certo, la stanza del Santa Lucia è decisamente meglio rispetto alla terapia intensiva del San Camillo: non solo è più confortevole, ma essere qui significa che il peggio è passato e posso cominciare ad andare avanti, a prendere confidenza con il percorso di riabilitazione che mi aspetta, tornare a essere autonomo anche se in carrozzina. Insomma, sto facendo qualcosa, nonostante tutto.
Ma i pensieri negativi ancora non mi lasciano in pace, soprattutto quando sono da solo e inevitabilmente torno a riflettere sul fatto che niente, le gambe proprio non riesco a sentirle, è come se non ce le avessi proprio più.
Alfonso, il mio compagno di stanza, è un veterano della carrozzina, sta seduto lì da sette mesi quindi, tra una terapia e l’altra, se ne va in giro per il reparto a fare amicizia con gli altri ragazzi. Io non sono ancora così pratico, in fondo sono appena due settimane che devo fare i conti con questa mia nuova condizione e i miei spostamenti sono molto limitati. Così, oggi, un po’ per sfuggire ai famosi brutti pensieri, un po’ perché mi sono detto che tanto prima o poi avrei dovuto farlo, appena sono arrivati mio fratello e Martina, ho chiesto loro di accompagnarmi a vedere questa famosa piscina.
È bastata una parola, «Andiamo», e loro hanno capito.
«Va bene, Manuel, ma sappi che se non te la senti non devi farlo per forza».
«No, non posso più aspettare, voglio tornare in piscina».
da Rinascere. L’anno in cui ho ricominciato a vincere, di Manuel Bortuzzo, Rizzoli (2019)