Nominare la realtà significa sottrarsi alla confusione. Fin dalla prima parola pronunciata dall’essere umano nella storia del linguaggio, l’atto di apporre al mondo dei significanti – delle forme espressive per dirlo – serve a far emergere dal caos il suo significato, il suo reale contenuto. Un atto, questo, innanzitutto intellettuale: prima ancora di plasmarla a parole, attraverso suoni o segni grafici, è nel pensiero che la realtà prende forma e consistenza. Soltanto se pensiamo – se siamo disposti a pensare – il reale, allora esso inizierà a modellarsi, venendo alla luce dal groviglio indefinito delle sole percezioni e trasformandosi in idee. Subito dopo giungono le parole, l’antidoto per non farci sommergere dal disordine del nostro privato sentire. Ogni uomo percepisce la realtà che lo circonda in modo unico, insostituibile. È nello scegliere un nome per dirlo, tra tante e tante possibilità offerte dal linguaggio, che una porzione del reale viene sottratta al magma dell’anonimia. Apporre quindi delle etichette linguistiche al caos è il primo rimedio per fare ordine dentro noi stessi: è fondamentale conoscere non tanto la forma di ciò che si sta cercando, ma dove poterlo trovare. Come accade per i libri di una biblioteca o per gli oggetti in un armadio, le parole sono il nostro modo di indicizzare, di catalogare l’universo. Di apporre alla realtà dei segnali, costruendo così una mappa di lemmi per non smarrirci. Senza parole, non rimarrebbe che l’affanno di cercarci all’interno della realtà alla cieca, e per goffi tentativi. L’esito non potrà che essere quello di perderci in un innominabile e doloroso spaesamento, risucchiati in un silenzioso gorgo. Fu Esiodo, nella Teogonia (vv. 116-125), a narrare la genesi del mondo a partire dalla confusione – rivelando quanto fosse lontano da noi il modo di pensare, e dunque di dire, peculiare del paesaggio intellettuale greco: Dunque, per primo fu il Chaos, e poi Gaia dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti gli immortali che tengono le vette dell’Olimpo nevoso, e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade, e poi Eros, il più bello fra gli dèi immortali, che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio. Da Chaos nacquero Erebo e nera Nyx. Da Nyx provennero Etere e Hemere che lei partorì concepiti con Erebo unita in amore. «Ἦ τοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ᾽.» In principio fu il caos. Tuttavia, non ci si lasci ingannare – confondere – dal significato che la parola greca χάος (cháos) ha assunto solo a partire dal XIV secolo. Ovvero quello di «disordine primordiale», «mescolanza» fino ai moderni «sistemi complessi» della fisica e della matematica. Come ben hanno fatto notare il filologo britannico Herbert Jennings Rose, nel suo Dizionario di Antichità Classiche, e l’italiano Giulio Guidorizzi, quel verbo adoperato da Esiodo, γένετο (ghéneto), aoristo di γίγνομαι (ghíghnomai), «diventare», non è affatto equiparabile all’imperfetto biblico del verbo «essere», ἦν (ên). Ovverosia: qualcosa prima del caos 19 doveva esserci stato. Non nasce come condizione eterna né esiste «da sempre» per ontologica definizione. Tantomeno χάος indicava il «vuoto», «l’assenza totale» di materia e dunque di pensiero – ancora, secondo Guidorizzi nel Mito greco, era invece «una specie di gorgo buio che risucchia ogni cosa in un abisso senza fine paragonabile a una nera gola spalancata». Per tradurre in altri termini le parole di Esiodo, per noi comuni – e non cosmogonici – mortali, tutto ciò che, «in principio», si rivelò necessario non fu «la parola» (quella sarebbe giunta subito dopo, portando con sé il suo potere creativo), bensì la responsabilità di mettere ordine nella gamma di infinite possibilità offerte dall’esistere. Solo poi, scegliere di generare, anche e soprattutto a parole, la terra e gli abissi, la luce e le ombre – senza tralasciare eros, il più bello di tutti, capace di «domare nel petto il cuore e fornire il saggio consiglio». Platone, nel dialogo Timeo, non ha dubbi. Quel caos descritto da Esiodo non era che la materia informe e rozza da cui attingere il pensiero. O, per dirlo con le parole di Michelangelo, il dare forma partendo dal tutto e procedendo non per aggiunta, ma per sottrazione: per «arte del levare». Esattamente ciò che occorre quando i nostri pensieri sono etimologicamente confusi, dal latino confundere, ovvero «fondere insieme», «mescolare», lemma che nasce dall’unione del prefisso con- e del verbo fundere, «versare». Buttare degli ingredienti differenti e del tutto a casaccio in un calderone, farli bollire per ore e «vedere l’effetto che fa», da improvvisati alchimisti dell’esistenza. Da qui deriva la nostra confusione – come nel francese confondre, nello spagnolo confundir e nell’inglese to confuse. Stato confusionale, si suol dire come generosa attenuante per chi non è in grado di capire ciò che fa e ciò che dice.
Tratto dal primo capitolo di Alla fonte delle parole: 99 etimologie che ci parlano di noi di Andrea Marcolongo (edito da Mondadori).