JeffersonStoria del Mississippi, dove l’ultimo democratico è un Di Pietro del Delta

Il passato da Stato segregazionista e ultraconservatore si evince fin dalla sua bandiera, nonostante ciò un procuratore generale ha provato a cambiare le cose, mettendo sotto accusa il KKK. Ma è stato sconfitto

Il Mississippi non ha mai preteso di essere lontano dalle sue radici profonde nella schiavitù, non per niente la bandiera da combattimento della Confederazione campeggia tuttora nella vessillo statale, come vediamo qui sopra.

Non solo: sin dalla sua fondazione come Stato fu uno dei centri propulsivi dell’uso economico della schiavitù, come la vicina Louisiana (della quale parlammo qua). Ma a differenza di questa, non aveva una quota considerevole di neri liberi a popolarla né di persone dal retaggio non anglosassone. I nativi americani presenti vennero deportati durante la presidenza di Andrew Jackson, forse il primo politico americano di prima fascia a usare in modo spregiudicato la demagogia contro l’establishment. Il Mississippi quindi divenne lo stato americano al centro della produzione di cotone, sfruttando la fertilità del suolo, l’abbondanza d’acqua e il lavoro degli schiavi.

E come investivano i guadagni i piantatori?

Comprando altri terreni e altri schiavi, senza badare all’innovazione agricola, nonostante alcuni magnati come Thomas Affleck, autore nel 1847 di un bestseller sulla coltivazione moderna del cotone e Joseph Davis, fratello del senatore e futuro presidente confederato Jefferson Davis. Quest’ultimo fondò una piantagione basata sulle idee socialiste utopistiche del britannico Robert Owen, con una forma di autogoverno affidata agli stessi schiavi. Ma a prevalere furono le teste calde nella politica locale, come il governatore John J. Pettus, che auspicava la secessione sin dai primi anni ’50. Eletto governatore nel 1859, fu subito chiaro: solo la secessione avrebbe potuto salvare la “peculiare istituzione“.

E infatti il Mississippi si staccò dall’Unione il 9 gennaio 1861, secondo solo al South Carolina. E proprio uno dei suoi senatori al Congresso sarebbe diventato presidente della propria istituzione

E infatti il Mississippi si staccò dall’Unione il 9 gennaio 1861, secondo solo al South Carolina. E proprio uno dei suoi senatori al Congresso sarebbe diventato presidente della propria istituzione. E anche dopo il conflitto, mentre altri ex confederati come Robert Lee caldeggiavano la riconciliazione tra le parti, Jefferson Davis rappresentò fino alla sua morte l’ala estremista dell’ex leadership sudista, accettando a denti stretti la forzata riunificazione.

Falliti i tentativi di ricostruzione democratica nello stato, dopo il ritiro dell’esercito federale nel 1877 il Mississippi tornò in mano alla vecchia classe dirigente. Che nel 1890 instaurò una nuova costituzione apertamente discriminatoria non soltanto nei confronti degli afroamericani, ma anche dei bianchi poveri. I politici locali incarnarono agli occhi della sgomenta ma distratta opinione pubblica del Nord il razzismo più violento e greve.

Uno di questi, il senatore Theodore Bilbo, venne satireggiato nel 1946 da una canzone di Pete Seeger, Listen mr. Bilbo. Sotto questa coltre di odio razziale e arretratezza, nel 1955 il brutale linciaggio del quattordicenne di Chicago Emmett Till mise sotto accusa l’intero sistema della segregazione, basato su paure irrazionali, involontariamente spiegate in una frase dell’allora presidente Dwight Eisenhower in un colloquio privato con il giudice capo della Corte Suprema Earl Warren: “White southerners are not bad people. All they are concerned about is to see that their sweet little girls are not required to sit in school alongside some big overgrown Negroes“.

Più tardi i vecchi segregazionisti come i senatori Eastland e Stennis cedettero il posto a nuovi senatori repubblicani, come Thad Cochran, eletto nel 1978 e Trent Lott, anche lui, ma guarda un po’, nostalgico del vecchio Sud segregazionista

Più tardi i vecchi segregazionisti come i senatori Eastland e Stennis cedettero il posto a nuovi senatori repubblicani, come Thad Cochran, eletto nel 1978 e Trent Lott, anche lui, ma guarda un po’, nostalgico del vecchio Sud segregazionista. In tutto questo scenario, una figura come quella di Jim Hood è poco meno che rivoluzionaria. Eletto con i Democratici, ma sicuramente conservatore, contrario all’aborto e all’adozione per le coppie omosessuali, pur favorevole a una moderata regolamentazione delle armi ne deteneva alcune, come si vede in questa foto tratta dal suo sito elettorale:

Ma ciònonostante, da procuratore generale eletto per la prima volta nel 2003 e poi successivamente per quattro mandati consecutivi, ha perseguito sia criminali come l’ex membro del Ku Klux Klan Edgar Ray Killen, alla cui vicenda si ispirò il film Mississippi Burning, sia potentati economici: le compagnie assicuratrici relativamente ai danni provocati dall’uragano Katrina nel 2005 e fatti pagare alle casse pubbliche, le grandi case farmaceutiche, accusate di essersi fatte pagare dei farmaci a prezzo pieno in modo fraudolento, e anche Google, ritenuta colpevole di favorire la violazione del copyright.

Insomma, un profilo che definiremmo da Antonio Di Pietro del Delta. Ma l’orientamento conservatore dello stato, che stride con la povertà della popolazione, con quasi il 20% degli abitanti che vive in uno status di estrema indigenza, era troppo per Hood per riuscire a battere il vicegovernatore uscente Tate Reeves, faccia pulita da conservatore classico ultraliberista, che ha prevalso con il 52% a 46% contro Hood, l’ultimo Democratico che manteneva una carica elettiva di governo nello Stato.

A completare il riallineamento ha contribuito l’intervento dell’ultimo minuto del presidente Trump, che ha fatto quello che sa fare meglio: mobilitare la sua base elettorale specie in uno stato in cui ha un tasso di approvazione del 56%. Ma i risultati negli altri stati di questa tornata elettorale dimostrano, una volta di più, che l’hanno prossimo il tocco magico di Trump potrebbe non essere abbastanza. Chiedete conferma a Matt Bevin in Kentucky.

(Tratto dalla newsletter Jefferson-Lettere sull’America. Per iscrivervi cliccate qui)