Tutti i giornali sono pieni ormai di fosche previsioni e analisi spietate sulla stabilità del governo. E anche se nessuno si azzarda ancora a scommetterci sopra, e in pochi anche solo a pronunciare la parola «crisi», è chiaro che tutti pensano a quello. D’altra parte, ci sono molti modi per individuare l’approssimarsi di una crisi di governo, ma ce n’è solo uno che consente di seguirne passo passo lo sviluppo, potendone misurare e persino prevedere le singole scosse. Basta prendere interviste e dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Solo che non bisogna guardare a quello che dicono, ma a come lo dicono.
Il primo stadio corrisponde grosso modo a quella che gli esperti chiamano la fase della negazione. La sintassi comincia a infittirsi, i periodi si fanno sempre più contorti, il lessico sempre più fumoso, mentre l’uso abbondante di metafore romantiche o perfino religiose s’incarica di trasportare i duri problemi quotidiani – la finanziaria, i conti che non tornano, le divisioni nella maggioranza – in un’atmosfera rarefatta e spirituale, quasi da dolce stil novo. Quando Nicola Zingaretti, fior di ministri e commentatori amici, nonché lo stesso Giuseppe Conte, arrivano a dire che «questo governo non ha un’anima», insomma, significa che qualcosa si è rotto, ma non lo si vuole riconoscere. In pratica, è quel momento del film in cui lei si volta verso di lui e gli dice: «Non ridiamo più».
Il secondo stadio è quello in cui, non volendo accettare l’ineluttabilità della situazione, il partner di governo più fragile si impegna con tutto se stesso nel riconquistare l’altro, si colpevolizza, si fa in quattro, fino a un vero e proprio annullamento di sé, della propria personalità e del proprio programma di governo. È il momento in cui lui sarebbe capace di portarla a vedere il “Lago dei cigni” la sera della finale di Champions League, e poi spergiurare che le sue siano lacrime di commozione per la dolcezza della musica e l’incanto della scenografia, tornare a casa, farsi una doccia, e votare pure il taglio dei parlamentari. Sarebbe capace di fare tutto questo e molto di più, ripetendo, per giunta, che è quello che ha sempre sognato, alla sola condizione che lei gli permetta di accompagnarla alle regionali, anche senza farsi vedere, facendosi piccolo piccolo, senza bandiere né simboli di partito, solo per il piacere di starle accanto.
Il terzo stadio è quello dell’esasperazione. Il paziente hegelismo che ha segnato la fase precedente, con l’ossessivo ritornello sulla necessità di fare – o trovare – una sintesi, si piega improvvisamente verso una peculiare forma di empirismo burocratico
È il momento in cui i discorsi, da fumosi che erano, si fanno incomprensibili. L’angoscia che tormenta l’animo del leader si riflette nelle sue dichiarazioni, che assumono un tratto eracliteo: non c’è più nulla di saldo e sicuro, tutto diventa al tempo stesso fluido e oscuro. Non ci sono più scelte, decisioni, provvedimenti, ma solo processi, necessariamente lunghi e dall’esito ovviamente non scontato, anzi, per essere precisi, nemmeno avvistato. Nelle interviste abbondano le tele da tessere e le convergenze da ricercare, le condizioni che devono maturare e soprattutto i condizionali.
Il terzo stadio è quello dell’esasperazione. Il paziente hegelismo che ha segnato la fase precedente, con l’ossessivo ritornello sulla necessità di fare – o trovare – una sintesi, si piega improvvisamente verso una peculiare forma di empirismo burocratico. È il momento terminale, che nelle dichiarazioni dei protagonisti è caratterizzato dalla fioritura compulsiva di «tavoli» e «cabine di regia» da un lato, dall’altro di «vertici» e persino, osando anche sul piano geometrico, di «prevertici». Qui l’eloquio e la stessa scelta delle metafore, in prossimità degli ultimi sussulti, assume un carattere danzante, curiosamente allegro, ma di un’allegria isterica. È il momento del «cambio di passo», dello «scatto», del «colpo di reni». Sono, in realtà, le contorsioni finali. Fino all’ultimo fremito, la formula che nessun governo ha mai superato, le colonne d’Ercole di ogni crisi di governo: «La fase due».
Arrivati a questo punto, anche il partner di governo più accecato capisce che è tutto finito. Inutile, ormai, rinfacciare all’altro i tradimenti, i messaggini con Salvini o i giochi di sponda con Renzi. Ma bisogna fare attenzione, perché è il momento più pericoloso. Un momento in cui il partner deluso può essere capace di tutto, anche di atti di vero e proprio autolesionismo, fino al suicidio dimostrativo.
E se pensate che queste siano cose da adolescenti, che i leader politici di oggi siano persone serie: beh, guardatevi intorno. Sentite come parlano, come ragionano, come twittano. E vi renderete conto che il turpiloquoio, il burocratese e gli insulti sono il meno. Bisogna pur passare il tempo, e bisogna che la curva esulti (tanto più in vista di una nuova campagna elettorale). Ma c’è voluto del talento per riuscire a governare senza diventare adulti.