Recuperare la lentezza e altri rimedi utili contro le fake news e la post-verità

Nel film “Vaccini. 9 lezioni di scienza” Elisabetta Sgarbi ha riunito esperti di vari orientamenti (medici, semiologhi, filosofi) che spiegano, illustrano, raccontano, l’importanza e il modo di procedere della ricerca. Oggi l’anteprima a Torino

Oggi si parla moltissimo di post-verità, ma forse se ne parla in modo confuso, impreciso. Certo è che siamo in una fase in cui le verità, le versioni dei fatti e dunque le contraddizioni si moltiplicano. Ciascuno può cambiare idea da un momento all’altro senza che questo appaia un problema. Ed invece è proprio questo il problema, come se non vi fosse più né la richiesta, né l’esigenza di coerenza all’interno dei discorsi scientifici, politici, istituzionali. È un po’ come se fossimo incantati dal girare dello spettacolo delle verità che si riproducono. Cosa è dunque la post-verità? È la modalità dei nostri tempi in cui in molti si sentono autorizzati a parlare pur senza averne le competenze, e gli altri rimangono incantati da questa girandola di verità, che mi fa pensare spesso a una trottola. La mia educazione, forse il mio carattere, ma anche e soprattutto la formazione accademica che ho avuto, mi hanno abituata a pensare che la coerenza sia non solo un criterio etico che tutti dovremmo avere, ma innanzi tutto un criterio della conoscenza e del discorso. La coerenza ci mette di fronte a degli orizzonti ampi, non si misura nell’istantaneità di una presa di posizione, ha a che fare con il tempo perché ha a che fare con la linearità e la non contraddittorietà delle proprie opinioni. Ha a che fare con il tempo anche perché sostenere delle idee, esserne convinti, accertarle, richiede tempo.

Credo che una delle dimensioni più confondenti di questa epoca sia il fatto che non abbiamo tempo. Solitamente pensiamo di avere solo uno, due minuti al massimo per poter elaborare una risposta, una reazione. Siamo presi in una corsa verso la performance che ci impedisce di riflettere davvero e di portare avanti quel lavoro di accertamento della verità che dovrebbe essere fatto dal nostro tribunale interiore e cognitivo. Ma appunto accertare la verità richiede tempo, richiede l’ascolto di tante persone, di testimoni, di periti ed esperti. Sappiamo cosa è una perizia solo in campo immobiliare, per cui siamo abituati a chiederne una se dobbiamo comprare una casa o un terreno, ma sarebbe interessante pensare a delle perizie cognitive anche negli ambiti in cui ci muoviamo. Credo sia utile tenere a mente il modello del tribunale, non tanto per formulare giudizi, ma per ricordarci che proprio per poterlo fare esiste tutto un processo da svolgere.

Utile tenere a mente il modello del tribunale, non tanto per formulare giudizi, ma per ricordarci che proprio per poterlo fare esiste tutto un processo da svolgere

La bilancia è da secoli uno dei simboli più classici della giustizia dei tribunali. Ma a me la bilancia non fa pensare tanto a un ideale di neutralità giusta, quanto all’accuratezza che comporta il soppesare le diverse versioni di un qualcosa. Anche un piccolissimo peso fa la differenza, crea un movimento fra i due piatti. Bisognerebbe tenere presente che il sapere – solo secondariamente il sapere in senso accademico, quanto piuttosto prima il sapere quotidiano –, come in merito ai trattamenti medici, ai vaccini, abbia a che fare col soppesare le varie versioni in cui siamo immersi, bombardati da discorsi in contraddizione e in competizione tra loro. Competizione cui non dovremmo cedere a nostra volta: dovrebbe interessarci solamente soppesare le varie versioni appunto. Soppesarle significa anche capire quali interessi celano, perché ve ne sono sempre, in ogni discorso. Non credo alla neutralità delle persone, tanto meno dei politici. Perciò dovremmo essere in grado di saper fare distinzioni e analisi. Ne abbiamo le competenze, viviamo d’altronde in un paese con un’alfabetizzazione tutto sommato elevata; ne abbiamo gli strumenti perché Internet potrebbe non soltanto confonderci ma anche fornirci qualche elemento di giudizio in più. Forse appunto non abbiamo il tempo, e forse non abbiamo la fiducia in autorità che ci guidino. Tutti siamo stati in braccio a qualcuno; questo non ci ha offesi e non ha ridimensionato la nostra personalità. La nostra personalità è tale perché i genitori veri e propri e quelli “ideali” che ognuno di noi ha scelto lungo il suo percorso ci hanno aiutati a formarla.

Tutti siamo chi siamo perché la nostra vita è stata costellata di autorità individuali a cui ci siamo affidati. Dovremmo forse recuperare la consapevolezza che affidarsi tramite un rapporto di fiducia non è una limitazione della nostra autonomia di pensiero ma una forma di intelligenza verso chi ci ha preceduto, verso la complessità del mondo. Le narrazioni sono una delle dimensioni più rilevanti dell’epoca in cui viviamo. A me non piace la parola storytelling, oggi abusata, ma sono stata abituata a pensare che i significati del mondo assumano in noi una forma narrativa, attraverso cui riusciamo a capire e gestire il senso. Ci affidiamo a dei copioni che ci aiutano a modellare e comprendere la realtà. Pinocchio è uno di questi. La storia di un bambino che vuole trasgredire, innanzitutto, che vuole disubbidire al suo genitore e che insegue il piacere, il mondo dei balocchi, e per questo inventa tante bugie e storie. Attraverso la vicenda di Pinocchio, in molte variazioni, abbiamo riflettuto su varie cose, abbiamo pensato i rapporti con i genitori, con le persone che abbiamo amato, abbiamo pensato i tradimenti e le fughe mentali. Diamo forma al mondo, stiamo nel mondo, attraverso l’aiuto che le storie ci danno. Uno dei problemi che affrontiamo – e una delle ragioni, forse, di questa fase di grande confusione – è che si sono perse delle grandi narrazioni chiare. Le narrazioni per eccellenza erano quelle delle grandi ideologie, che sembrano ormai lontane anni luce, anche se la caduta del muro di Berlino è avvenuta solo nel 1989. Oggi invece viviamo in un universo di storie frammentate, moltiplicate, e questo dà un senso circoscritto alle verità che ci troviamo a maneggiare. Siamo immersi in un universo di micro-narrazioni: la storia della corruzione di un politico, la storia del tradimento di un altro o la storia della donna maltrattata e uccisa, la storia del migrante, e magari del migrante che poi così povero non è, come alcuni hanno provato a sostenere falsificando persino delle foto. Ecco, in questo mosaico narrativo, i legami fiduciari di una società si indeboliscono, e resta solo una girandola di parole che ci incantano come incantano le trottole: incanti passeggeri, anche di pochissimi secondi, lì per lì bellissimi, ma poco duraturi, poco stabili, destinati a lasciare ben poco.

Le storie avrebbero la possibilità di essere molto efficaci nel darci valori più forti e costituire delle comunità più robuste, invece abbiamo quasi perso questo loro potere. Il mondo pubblicitario, ad esempio, dall’essere stato percepito come una grande fucina di storie, è divenuto soprattutto un grande serbatoio di nuove immagini che si consumano – come è forse nella natura della pubblicità – molto velocemente. Questa grande frammentazione narrativa produce, a mio parere, anche una grande solitudine. Oggi si parla molto di solitudine, studiata soprattutto come fenomeno alimentato dai sociali media, che mettendoti apparentemente in connessione col mondo, in realtà spesso ti chiudono nel tuo. Questo isolamento individuale in cui tutti viviamo è un problema perché non ci abitua al confronto, essenziale per uscire uscire da noi stessi, essenziale nel darci del tempo: il tempo del dialogo, il tempo dell’elaborazione di una risposta, il tempo in cui si sedimentano idee, pensieri, parole che ti sono state dette. Le clessidre mi piacciono molto perché mi danno l’idea di uno scorrere del tempo lento. Non è che le clessidre siano lente, le clessidre vanno alla stessa velocità dei nostri orologi, però mi sembrano, forse, nella loro materialità, più conformi al tempo che viviamo, al tempo umano, che appunto è un tempo lento, mentre questa epoca sembra afflitta dalla patologia dell’immediatezza. La verità secondo me ha pochissimo a che fare con l’immediatezza. La verità è lenta, è lentissima; è lentissima nell’affermarsi, è lentissima negli accertamenti che comporta. È lentissima nel diventare una realtà chiara a tutti. Qualunque grande verità a cui possiamo pensare – le verità fisiche, le teorie del cosmo, le verità scientifiche – è frutto di un lavoro lentissimo, ovvero di un tempo lentissimo: ci si deve dare tempo per cercare di scoprire qualcosa.

È allarmante confondere la democrazia con un egualitarismo nel diritto di parola. Certo, tutti abbiamo diritto a prendere la parola ma le parole non si equivalgono: ci sono soggetti autorevoli deputati a parlare, e soggetti che non lo sono

Il lavoro dell’accertamento della verità, del processo della verità, è quel lavoro che ti consente di ricostruire se non l’interezza di un fenomeno o di un fatto – cosa che sarebbe bella e auspicabile – almeno una parte che dia senso ai frammenti che il più delle volte abbiamo a disposizione. In questo lavoro di ricomposizione non sempre si arriva a esiti certi. Siamo nell’ambito delle interpretazioni, di un lavoro di ricostruzione che procede per indizi, per ipotesi e poi le va a verificare. A volte viene smentito, a volte viceversa trova conferma. Ma il fatto che questo lavoro proceda per ipotesi non significa in alcun modo che esse si equivalgano tutte, e ciò può valere per qualsiasi pezzo di realtà che ci troviamo a interpretare. Quello che tutte le mattine o in qualsiasi momento leggiamo sui giornali o sui siti internet è un pezzo di realtà. Il compito è trovare la parte che manca, non descrivere alla perfezione quella che abbiamo già: la cosa più difficile è costruire appunto ciò che non c’è, il tutto da cui deriva il senso e che ci consente di interpretare in modo adeguato anche il singolo elemento. Come dicevamo, non tutte le interpretazioni che possiamo ipotizzare sono equivalenti. Molto spesso quando si enfatizza il ruolo delle interpretazioni e il fatto che ci muoviamo sempre in una catena di interpretazioni sembra che si voglia dire che tutto è equivalente, everything goes. Non è affatto così per chi si occupa di linguaggio e di cultura, di analisi della cultura, come me, perché le interpretazioni non sono affatto tutte uguali. Ci sono interpretazioni che corrispondono a sistemi di credenze consolidate; ci sono interpretazioni che contraddicono porzioni di sapere condiviso e attestato che non sono razionalmente sostenibili. Ci sono interpretazioni date con l’immediatezza della reazione appassionata e interpretazioni meditate in cui si è fatto un lavoro di verifica sulle fonti, sulle prove. Le interpretazioni sono come i pesi delle cose: dobbiamo dare peso alle parole, alle cose, alle affermazioni da cui siamo bombardati. Tutte le affermazioni sembrano certe allo stesso modo; è difficile, difficilissimo oggi, più che in altri periodi, a mio avviso, leggere, ascoltare frasi dubitative, osservazioni dubitative. Siamo completamente immersi in un mondo che ci dà certezze, che offre sicurezze, mentre trascuriamo un’operazione apparentemente molto banale come quella del soppesare, collocando sui piatti della bilancia della nostra mente, della nostra coscienza, della nostra sensibilità, affermazioni diverse. E a volte non ci arrischiamo neanche a fare questa operazione perché, come sanno bene coloro che hanno fatto del furto e dell’inganno il proprio mestiere, una bilancia ti può smascherare o può smascherare altri. Le istituzioni dovrebbero rispettare l’autorevolezza di chi è competente in qualche campo. Quando parlo di competenza, ovviamente, non mi riferisco solo al sapere teorico, le competenze sono tali anche quando riguardano qualcosa di molto concreto. Penso che le istituzioni dunque, cioè chi ha la capacità, il ruolo, la posizione e il dovere di prendere delle decisioni per la collettività, dovrebbe rispettare appunto le competenze di chi è autorevole: questo mi sembra il modo migliore, se non l’unico, per garantire una società democratica.

Trovo che sia disarmante, anzi allarmante, confondere la democrazia con un egualitarismo nel diritto di parola. Certo, tutti abbiamo diritto a prendere la parola – il diritto di espressione è per l’appunto un diritto – ma le parole non si equivalgono: ci sono soggetti autorevoli deputati a parlare, e soggetti che non lo sono, e la democrazia è garantita da queste differenze, non lesa, poiché il funzionamento democratico si basa sulle mediazioni, non sull’immediatezza. Questa è una delle grandi confusioni, dei grandi equivoci in cui viviamo e che molte politiche cavalcano, non dando rilevanza alle contraddizioni. La verità dev’essere qualcosa di coerente, di definito: la verità – laica o della fede – nella tradizione occidentale è chiarezza. Le post-verità invece offuscano, confondono, si sovrappongono, sommano veli su veli, strati su strati. Umberto Eco diceva “Il destino a cui i media ci preparano è un indebolimento del sapere, non per debolezza di quel che affermano ma perché i media ci abituano a sentire talmente tante cose contraddittorie che alla fine si perderà il senso di ciò che contava veramente.” Ecco, direi che la post-verità è questo, un affastellarsi di convinzioni, affermazioni, pretese, in cui perdiamo di vista quello che conta veramente.

In base a cosa molte persone non vogliono vaccinare i propri figli? In base al fatto che sanno di un figlio, di un parente, dell’amico di un amico, del figlio dell’amico che ha effettivamente avuto un problema dovuto a una qualche cura, o magari anche a un vaccino. Ma può essersi trattato di un’esperienza soggettiva

C’è un fatto che mi preoccupa molto e che allo stesso tempo, pur inquietandomi, non mi sorprende: il sentirsi tutti universalmente deputati a poter dire la propria, in qualsiasi ambito. Credo di essere competente in alcune cose, ma di altri settori non so assolutamente nulla. Posso aver studiato, posso essere una persona serissima, posso persino essere un insegnante, ma questo non mi autorizza a parlare di qualsiasi cosa. Questa tendenza era forse prevedibile riflettendo su due abitudini mentali cui la televisione soprattutto – oggi tutti accusano Internet e i social media, ma la radice è precedente – ci ha allenati: due realtà che oggi non destano neanche più la nostra attenzione, ma che sono state dirompenti, forse, per le nostre menti. In primo luogo ci siamo gradualmente assuefatti a un’idea molto complessa, molto contraddittoria o molto falsificata di realtà. Non sappiamo più distinguere cosa è reale e cosa non lo è, cosa è finzionale e cosa non lo è. Perché ci siamo abituati – progressivamente appunto, perché i cambiamenti antropologici non sono quasi mai cambiamenti rapidi – a trasmissioni come Un giorno in Pretura, Il grande fratello, L’isola dei famosi, la cosiddetta reality tv. Cosa succede in programmi come questi? Quello che accade è reale? Non è possibile avere una risposta precisa perché certo quel che succede all’Isola dei famosi è reale, ovvero avviene veramente. Quelle persone sono effettivamente in una condizione di difficoltà, di messa alla prova o di divertimento in una situazione estrema, ma, come sappiamo, è una circostanza allestita da un regista, da uno sceneggiatore, oltre che spiata ventiquattr’ore su ventiquattro da una telecamera. Quindi la spontaneità dei gesti, delle reazioni, delle possibilità che si hanno nella vita, a volte pochissime, a volte moltissime, comunque imprevedibili, lì invece sono regolate. Programmi come questi, che sono tantissimi e ci accompagnano da decenni formando la testa di noi e delle nostre madri e delle nostre famiglie, ci hanno abituati a non distinguere più tra ciò che è reale e ciò che vi si sottrae. Questo costituisce un problema enorme, perché ci impedisce di credere o di riconoscere la verità delle cose, come per esempio di una fotografia. Tempo fa abbiamo visto circolare la foto di una migrante – del Camerun, se non sbaglio – con lo smalto alle unghie, l’immagine è stata usata da alcuni politici per sostenere che i migranti non stanno poi così male visto che hanno il tempo di di laccarsi le unghie. Si trattava di una cosiddetta fake news, termine che non amo ma che qui uso non per affermare però che fosse una foto falsa, perché falsa in un certo senso, non era: quella migrante aveva veramente lo smalto, le era stato messo da un’operatrice per distrarla e per farle passare il tempo disperato delle ore su una nave. Non ci interessa più distinguere se un’immagine corrisponde o meno a una situazione spontanea, immediata, non filtrata, o se invece viene predisposta ad hoc e soprattutto utilizzata a un qualche scopo interpretativo. Non siamo più in grado di fare questa differenza, non ci interessa più, non la rileviamo, non ci facciamo caso. L’altra abitudine cui, gradualmente, omeopaticamente, ci ha educati la televisione è il dover ascoltare chiunque, o meglio dare credito a chiunque: negli studi televisivi, per dibattiti su qualsivoglia argomento, c’è il – più o meno esperto – e poi c’è il pubblico, che interviene esattamente in quanto fatto da “persone qualunqui”, cosa che conferisce una forma di legittimazione, un senso, ma non è un titolo in base a cui potersi esprimere.

Il fenomeno aveva avuto inizio percorrendo una strada comica o autoironica, come ne La Corrida, in cui andavano ospiti coloro che non sapevano suonare, erano stonati, non sapevano ballare: non sapevano e proprio per questo finivano in televisione e intrattenevano, in un ambito che non era il proprio, in un ambito in cui fallivano. Ma se fin qui si trattava di un gioco chiaro, a poco a poco è divenuto più ingannevole, fin tanto che anche trasmissioni d’informazione, persino quelle che siamo disposti a ritenere più serie, ci sottopongono continuamente i pareri di persone che parlano in base alla propria esperienza. Ma l’esperienza del singolo non è mai stata un parametro di sapere; l’esperienza di solito acceca. Se io mi faccio male perché il peso di una bilancia mi cade sul piede facilmente penserò che i pesi siano in qualche modo responsabili di una colpa, di un danno, ma questa mia esperienza non è generalizzabile, non può diventare la base di un sapere. E questo in ambito medico avviene continuamente, giornalmente. In base a cosa molte persone non vogliono vaccinare i propri figli? In base al fatto che sanno di un figlio, di un parente, dell’amico di un amico, del figlio dell’amico che ha effettivamente avuto un problema dovuto a una qualche cura, o magari anche a un vaccino. Ma può essersi trattato di un’esperienza soggettiva: il fatto che effettivamente si sia data un’esperienza drammatica non è una ragione per delegittimare anni, decenni di studio, di ricerca, di verifiche, di prove. Devono passare altri decenni per dimostrare che quell’esperienza drammatica è una regola, per decretare il passaggio dal caso alla consuetudine. Le teorie, quelle scientifiche soprattutto, ma anche le teorie sociali e politiche, si fanno sulle regole, non sui casi, perché questi a volte sono molto ingiusti: tutti noi ne facciamo esperienza, appunto, ma ciò non significa che il mondo sia retto da un complotto.

*Anna Maria Lorusso insegna Semiotica presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, Università di Bologna.
Ha pubblicato nel 2018 per Laterza il libro “Postverità. Fra reality tv, social media e storytelling”.

Lunedì 25 novembre, alle 18.00, all’Auditorium grattacielo, Intesa Sanpaolo, Corso Inghilterra, Torino verrà proiettata l’anteprima del film “Vaccini. 9 lezioni di scienza” di Elisabetta Sgarbi.

Cosa sono i vaccini, come funzionano, come sono nati, se ne assumiamo troppi oppure pochi, se possono avere effetti collaterali, quale relazione hanno con il grande tema dell’immigrazione, se veniamo correttamente informati oppure se aleggiano su di essi false notizie e come si possono evitare: sono solo alcuni dei temi che 9 uomini e donne di scienza (medici, semiologhi, filosofi) affrontano, in altrettante “lezioni” giocose e eclettiche, in questo documentario che non intende aprire un dibattito sul tema dei vaccini, semmai intende chiuderlo definitivamente, rimettendo al centro la scienza. La scienza, ci dicono le personalità coinvolte, se è davvero scienza, non è dogmatica, si mette continuamente in discussione, è consapevole della propria fallibilità; ma proprio per questo, è allenata a smascherare, con umiltà e autorevolezza, ogni dogmatismo che le si contrapponga.
Con Alberto Mantovani, Andrea Biondi, Emanuele Coccia, Pietro Bartolo, Massimo Cacciari, Anna Maria Lorusso, Gianpaolo Donzelli, Chiara Azzari, Roberto Burioni. Il documentario è stato prodotto da Fondazione Meyer e Betty Wrong