«Vent’anni dopo l’Affaire, Marcel Proust, sotto le sue coperte e i suoi plaids, evocava le grandi ore della sua vita, come un generale sul letto di morte gli errori tattici dei suoi capi, le debolezze o i meriti dei suoi luogotenenti: ‘Perché caro amico non avete preso una posizione precisa nell’Affaire? Eravate tiepido, poco sicuro… Bisognava contarsi!».
Così il celebre pittore Jacques-Émile Blanche, l’autore fra l’altro del famoso ritratto di Proust con la gardenia nell’occhiello, il volto pallido, gli occhi tristi e grandi, ricordava le parole del grande scrittore ormai prossimo alla fine. Chi se lo immagina Marcel Proust attivo sostenitore della più immortale battaglia contro una delle più grosse fake news della storia moderna, quella che è passata alla storia come l’Affaire Dreyfus?
Eppure andò proprio così. Proust non fu infatti solo il Proust che conosciamo tutti, quello che scrive a letto nella stanza foderata di sughero e regala le pantofole agli inquilini del piano di sopra perché non facciano rumore, il romanziere un po’ misterioso angosciato dall’asma e dall’omosessualità e da un mucchio di altre cose. C’era stato molti anni prima anche il Marcel giovane dandy-scrittore non ancora affermato ma già assiduo frequentatore del mondo intellettuale parigino che si fa propagandista, diremmo oggi, dell’innocenza del capitano Alfred Dreyfus, la cui vicenda viene adesso rievocata in modo così filologicamente esatto dal gran film “L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski, il quale ha pienamente colto il significato generale di quella lontana storia. Che concerne ovviamente un episodio centrale della secolare storia dell’antisemitismo; ma che investe in pieno qualcosa di più enorme: il tema morale della Verità.
Poi si può anche sostenere che, a ben vedere, il nucleo fondativo e persistente dell’antisemitismo sia proprio il contrario della Verità, cioè la Menzogna, e che pertanto mai come in questo caso la Politica diviene il terreno di scontro tra l’una e l’altra
Poi si può anche sostenere che, a ben vedere, il nucleo fondativo e persistente dell’antisemitismo sia proprio il contrario della Verità, cioè la Menzogna, e che pertanto mai come in questo caso la Politica diviene il terreno di scontro tra l’una e l’altra. Se non avesse avuto questa valenza epocale, l’Affaire Dreyfus non sarebbe stato quello che è stato: uno spartiacque nella storia francese, secondo solo all’Illuminismo (e fra i due grandi fatti esiste una qualche relazione: il Voltaire dell’Affare Calas non sarebbe forse tanto un ardente dreyfusista?).
Infatti diremmo che nello schierarsi di Proust fra i dreyfusisti la chiave va scovata proprio nell’accezione morale più che nella battaglia politica contro il vento antisemita che sferzava la Francia di fine Ottocento. Certo, c’è anche questo. Proust, ebreo da parte di madre, visse la persecuzione del Capitano ebreo come una profanazione proprio dell’adorata madre: e chi abbia presente la complessa psicologia dello scrittore francese comprende la crucialità di questo elemento.
Tuttavia il punto essenziale è che Proust entra per la prima volta nella sua vita pienamente dentro un dilemma filosofico e morale, non si limita a contemplarlo sui libri ma ne sceglie concretamente uno dei due corni. Dove sta la Verità? Ma dalla parte di Dreyfus, senza dubbio! Lo dice la Letteratura, lo dice la Ragione. Le grandi divinità dell’universo intellettuale francese.
La vicenda lo appassiona, ne parla con tutti, va alle udienze del processo a Émile Zola, incriminato per aver scritto il decisivo J’accuse (scene descritte prima nel giovanile Jean Santeuil e poi nella Recherche), raccoglie le firme a partire da quella, venerata, di Anatole France, va tutte le sere al Café des Variétés per organizzare la campagna a favore del Capitano, insomma si muove come un agitatore radicale o socialista – non essendo beninteso né l’uno né l’altro. Le firme diventano subito 103, poi crescono fino a 3000.
Intende Proust combattere la Menzogna – la fake news – giacché si rende conto, come altre migliaia di francesi, che le prove a carico del presunto spionaggio di Dreyfus sono state fabbricate ad arte. Si fida ciecamente dell’ufficiale Georges Picquart che fu il principale protagonista nell’opera di smontaggio della fake news (interpretato magnificamente nel film da Jean Dujardin) e comprende che sotto c’è tutto un gioco politico-militare per imbrogliare l’amata Francia.
E vede giusto Polanski nel porre la figura di Picquart in primissimo piano, più di quella di Dreyfus. Lo spiegò bene Alessandro Piperno: «Picquart sembra sovrapporsi al Capitano Dreyfus (fin quasi a prenderne il posto)»
E vede giusto Polanski nel porre la figura di Picquart in primissimo piano, più di quella di Dreyfus. Lo spiegò bene Alessandro Piperno: «Picquart sembra sovrapporsi al Capitano Dreyfus (fin quasi a prenderne il posto) proprio perché lui, più del povero Capitano ebreo, ha dignità necessaria per accogliere gli entusiastici favori romantici dei giovani dreyfusisti». Romanticismo, già, perché le mattinate che Marcel trascorre con tanto di panini e borracce al medievale Palais de Justice parigino sono felici, entusiasmanti, «azzurre», le definisce.
Per la prima volta dunque sceglie da che parte stare. Proprio nella temperie dell’Affaire il giovane Proust percepisce il senso della responsabilità dell’intellettuale, intuisce che soltanto una riflessione psicologica e etica sulla storia, sulla politica, finanche sulla classe dirigente, può condurre alla Verità. E infatti come ha scritto Jean-Françoise Revel «nella Recherche la politica è presente ovunque». Il contrario dello stereotipo che è stato tramandato, di un librone tutto fuori dal mondo reale.
Certo, la Recherche arriva più tardi, quando l’Affaire è concluso da qualche anno con la vittoria della Verità e dunque del Capitano ebreo che pure aveva dovuto sopportare anni e anni di prigionia all’Isola del Diavolo. C’erano stati suicidi, condanne, riabilitazioni, dimissioni, mutamenti politici. Proust esce però deluso da tutta la vicenda. Perché mai, trattandosi di una vittoria, in piccola parte, anche sua?
«In politica dreyfusisti non ce n’erano più, perché a un certo punto, se volevano far parte del governo, lo erano stati tutti…», scrive con amarezza in una lettera a Madame Strauss – animatrice di uno dei maggiori salotti dreyfusisti – molto più tardi, nel settembre del ‘18. Una nota critica contro coloro che erano contro l’establishment e rientravano nell’establishment, Proust li chiamava «i dreyfusisti dell’undicesima ora». Una delusione: in fondo la Francia dopo Dreyfus era rimasta sempre la stessa.
Più invecchia, più prova disincanto per gli agitatori di un tempo, anche quelli schierati dalla parte giusta. Nei Guermantes scrive: «La verità politica ci sfugge nel momento stesso in cui, avvicinandoci agli uomini ‘che sanno’, crediamo di averla raggiunta». Qui c’è il disprezzo per la classe politica del suo tempo – «gli uomini che sanno» – che è poi quella che sta portando la Francia verso il precipizio infernale della Grande Guerra.
E poi, in definitiva, quella battaglia contro la fake news ordita contro il Capitano ebreo è per Marcel Proust un pezzo del passato, un ricordo lontano e bellissimo, cioè il contrario della disperazione per l’approssimarsi dell’inevitabile fine. Eppure quell’uomo piegato dalla vita, tanti anni prima si era schierato a fianco della dea Verità, scegliendo di battersi.