L’Africa è il continente del futuro. Lo dicono tutti, anche Vladimir Putin, che a fine ottobre ha invitato a Sochi una quarantina di leader africani, accolti da un’esposizione di fiammanti elicotteri e caccia, la principale mercanzia russa, un «aiutateli a casa loro» un po’ cinico. Ma il clima è da guerra fredda e Putin, dopo aver ignorato per anni il continente africano, si lancia a capofitto nel nuovo Risiko, perché dove ci sono americani e cinesi ci deve andare anche la Russia. «Le superpotenze che competono su questo continente saranno quelle a determinare il futuro del mondo», annuncia altisonante al vertice il deputato della Duma Anton Morozov. Non è dato sapere come abbiano reagito gli ospiti africani a sentirsi dire che il loro continente è soltanto un terreno di gioco di forestieri. In compenso, media e analisti di mezzo mondo hanno parlato, preoccupati o esaltati, del «ritorno di Mosca in Africa». Che era esattamente l’obiettivo del “vertice africano” a Sochi. «La Russia sta cercando di alimentare la percezione di essere uno dei giocatori principali sulla scena internazionale», è il commento di Grant Harris, ex consigliere sull’Africa di Barack Obama, e Foreign Policy ha fatto un po’ di conti in tasca al Cremlino, che attualmente invia nel Continente Nero soltanto il 3,7% del proprio export, di cui più dei due terzi finiscono nel Nord Africa, essenzialmente al vecchio amico Egitto (il cui presidente al-Sisi ha copresieduto il forum di Sochi). Le importazioni sono ancora più scarse, l’1,1%, e i 12 miliardi di dollari di protocolli di intenti firmati a Sochi probabilmente non incideranno molto su questi numeri.
L’ansia della Russia putiniana a ritornare impero come ai tempi sovietici si scontra sempre con gli stessi ostacoli, che cerchi il «pivot asiatico» in Cina, il grande gioco del Medio Oriente o la santa alleanza con i sovranisti europei: non ha molto da offrire. I petrolrubli sono sempre più scarsi, e gli elettori russi sempre più arrabbiati a vederli dirottati dagli ospedali e dalle pensioni verso le avventure geopolitiche d’oltremare. Le tecnologie made in Russia sono piuttosto arretrate, la sua rete di relazioni internazionali troncata dalle sanzioni e il conservatorismo putinista appare una proposta perfino troppo blanda, in presenza di una ricca offerta di autoritarismi autoctoni. Agli occhi del mondo emergente, Mosca propone soltanto due merci veramente appetibili: le armi (possibilmente in regalo, o con un pagamento dilazionato di decenni) e il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Due categorie merceologiche richieste da una nicchia di mercato ben precisa, quella dei cattivi ragazzi.
Con una tecnica già collaudata in Occidente, gli emissari russi hanno scommesso infatti soprattutto sui leader che faticavano a trovare assistenza altrove. Come Jacob Zuma, che aveva firmato con i russi un contratto molto oscuro per la costruzione di centrali nucleari. L’accusa di corruzione ha contribuito alla caduta del presidente sudafricano, e il suo successore Cyril Ramaphosa ha subito cancellato il contratto. O come Omar al-Bashir, assistito da un team di esperti russi con dettagliate raccomandazioni su come rimanere al potere riformattando l’amministrazione e i media del Sudan con strumenti moscoviti. C’era tutto, dalla creazione di video fake che dipingevano i manifestanti dell’opposizione come «anti-islamici, pro-israeliani e pro-LGBT» al «fermo preventivo dei leader dell’opposizione alla vigilia delle manifestazioni», praticamente una sorta di manuale del piccolo putiniano, con qualche adattamento esotico come la proposta di «esecuzioni pubbliche di ladri per distrarre l’attenzione del pubblico». Non ha funzionato, e al-Bashir è finito dietro le sbarre.
La «strategia africana» del Cremlino appare infatti concepita nelle stesse stanze in cui è nata l’offensiva sovranista sui social americani ed europei
Judd Devermont, del Center for Strategic and International Studies, attribuisce i fallimenti dei russi in Africa alla «abitudine di scommettere tutto su chi è già al potere». L’alternanza al potere è considerata un’eresia, e contrastarla in linea di principio è diventata negli anni anche una linea di politica internazionale, con risultati spesso disastrosi. Nel Madagascar, nel 2018 Mosca ha puntato tutto sul presidente uscente Hery Rajaonarimampianina, affidato al solito team di spin-doctor russi, e al solito manualetto della propaganda, con tanto di fondazione di una «fabbrica dei troll» incaricati di diffondere fake. Senza tenere conto di un piccolo problema: soltanto il 9,8% dei malgasci ha accesso a Internet. Quando è diventato chiaro che il capo di Stato era un cavallo zoppo, gli emissari russi hanno avvicinato, secondo BBC Africa, almeno altri sei candidati, tra cui personaggi esotici come un pastore che aveva fondato la «Chiesa dell’Apocalisse». Almeno due dei candidati hanno raccontato pubblicamente di aver ricevuto da emissari di Mosca offerte di soldi e assistenza (che in alcuni casi, pare, siano stati accettati). I sette candidati sostenuti da Mosca hanno preso, tutti insieme, il 12% dei voti, le elezioni sono state vinte da Andry Rajoelina – già ex presidente, la cui candidatura era stata vista con simpatia da Pechino e Washington – e i capi degli spin-doctors russi sono stati espulsi dall’isola.
Il «ritorno della Russia in Africa» per il momento, più che un gioco da grande potenza, sembra una commedia dei Vanzina. La documentatissima inchiesta dei giornalisti del sito russo Proekt racconta i dettagli esilaranti dello sbarco sull’isola di una ventina di esperti di «tecnologie politiche», quasi tutti ragazzi di provincia, emersi da campagne elettorali di Russia Unita e da campi di addestramento dei giovani putiniani in voga una decina di anni fa. Alcuni di loro non guadagnano abbastanza con la politica, e nel tempo libero vendono scarpe, e cercano lavoro su Linkedin mettendo tra le referenze le loro missioni «segrete» in Africa. Del team fanno parte anche personaggi oscuri, come mercenari di ritorno dalla Siria e secondi ranghi dei separatisti di Donetsk, riconvertiti in «esperti» senza sapere nulla di Africa e di Madagascar, e senza nemmeno parlare francese. In compenso, grazie al loro background navigano perfettamente nelle acque torbide della politica, e riconoscono subito per «tangenti mascherate» la lista degli aiuti che il presidente Rajaonarimampianina chiede ai russi: uniformi nuove per l’esercito, cinque elicotteri, aiuti per liquidare i danni di una tempesta e cinque chili di riso a ogni elettore, per un importo totale di 100 milioni di dollari, una somma con la quale si può comprare mezza isola, ma che non dovrebbe essere problematica per una grande potenza dalle ambizioni geopolitiche. Gli spin-doctors però rifiutano, e spostano i loro sforzi su candidati dallo zero virgola come il pastore dell’Apocalisse. Pur essendo in missione riservata, postano le loro foto sui social, qualcuno dei ragazzi in corso d’opera sposa anche una malgascia, un altro viene licenziato per ubriachezza molesta, e nessuno si dimentica di mandare alla casa madre di Pietroburgo una nota spese gonfiata rispetto alle uscite reali (comunque cospicue). In compenso, il giorno delle elezioni ad Antananarivu la notizia appare nei social russi, in tutti i gruppi legati in qualche modo al Madagascar, inclusi quelli dei fan dell’omonimo cartone animato. L’account falso dal quale è stato messo il post conduce i giornalisti di Proekt alla «fabbrica dei troll» di Evghenij Prigozhin, il «cuoco di Putin» e l’uomo che il procuratore del Russiagate Mueller ha indicato come il principale responsabile dell’ingerenza russa nelle elezioni USA del 2016.
La «strategia africana» del Cremlino appare infatti concepita nelle stesse stanze in cui è nata l’offensiva sovranista sui social americani ed europei. Sono gli uomini di Prigozhin ad aver fatto lievitare negli ultimi due anni la statistica dei russi che visitano l’Africa. Gli stessi «esperti di tecnologia politica» sono stati avvistati nel Sudan come in Madagascar, in Libia e nello Zimbabwe. Gli uomini del «cuoco di Putin» sono apparsi in una quarantina di Paesi, anche se per il momento l’unico dove appaiono ben saldi è la Repubblica Centroafricana, dove nell’estate del 2018 sono stati uccisi in circostanze molto poco chiare tre giornalisti russi arrivati a indagare le attività del «Gruppo Wagner», l’esercito di mercenari legato a Prigozhin. I «Wagner» appaiono anche a Madagascar, dove fanno da scorta ad alcuni candidati alla presidenza, e colpiscono la fantasia degli spin-doctor di provincia raccontando le loro gesta in Siria. La mappa degli interessi della «Compagnia» – come viene chiamata la società di Prigozhin – in Africa, pubblicata dal Guardian, segnala la Repubblica Centroafricana come «amica della Russia all’83%». Non è chiaro come vengano calcolate le percentuali di amicizia, ma tra i vari pictogrammi utilizzati per dipingere questo rapporto privilegiato ce n’è anche uno che simboleggia la «rivalità con la Francia» come fattore positivo.
A tracciare strategie e distribuire mazzette ai leader dell’Africa sono giovanotti di provincia armati di manuali pubblicitari, in un mix incredibile di ambizioni geopolitiche globali e avidità di addetti al marketing intenti a sbranare un budget
Gli scivoloni in Sudan e in Madagascar non sembrano aver ridotto le ambizioni di Prigozhin. Il centro Dossier, finanziato dall’ex oligarca ora dissidente Mikhail Khodorkovsky, ha rivelato documenti interni della «Compagnia» di Prigozhin, con progetti strategici come la formazione dello «Stato panafricano» nel Sud degli Stati Uniti. Siamo nel campo oscuro dei leaks, e nessuna conferma né smentita è possibile, ma il piano è troppo brutto per essere vero. In pochi punti succinti, con la spavalderia tipica dei venditori di campagne pubblicitarie, il documento propone la creazione di «campi di addestramento in Africa per gli attivisti neri, per organizzare la loro preparazione ideologica e di combattimento» e il «reclutamento di afroamericani delle città più povere degli Usa, con esperienza di gruppi criminali organizzati o che hanno scontato condanne in carcere», per portare, attraverso disordini di massa e lotta armata, alla fondazione tra Alabama, Georgia, Mississipi, Louisiana e South Carolina di uno Stato secessionista che «distruggerà l’unità territoriale dell’America minandone il potenziale economico e militare».
Questa gagliarda proposta viene messa per iscritto da Daria Timoshenkova, classe 1985, pietroburghese figlia di un funzionario di Russia Unita, laureata in economia internazionale e con un curriculum di consulente fiscale in grandi aziende internazionali. Oltre a sconvolgere l’assetto geopolitico degli Stati Uniti, ha prodotto una app per gli ostelli della gioventù e, insieme al consorte Dzheikhan Aslanov mette inserzioni che offrono lavoro a camerieri «carichi di ottimismo» e affittano monolocali a Pietroburgo. Il signor Aslanov, nato nel 1990 nell’attuale Azerbaigian, nonostante la giovane età, ha già una certa notorietà internazionale: è uno dei 13 indiziati russi nel Russiagate, oltre a essere sospettato dagli americani di truffe con i documenti e le criptovalute. Secondo le autorità americane, era il coordinatore dei troll di Prigozhin impiegati nella campagna del 2016, artefice tra le varie della creazione di community virtuali dirette agli afroamericani, che si spacciavano per diramazioni del movimento Black Lives Matters con nomi come Donotshoot.us.
Si prova quasi una sorta di delusione a trovare dietro le quinte di queste congiure non raffinati e spregiudicati artefici dell’ex Kgb, o l’esercito di diplomatici e studiosi esperti di Africa e Asia che l’Unione Sovietica aveva addestrato nelle sue scuole in tempi in cui competeva davvero per il potere nel mondo. Arrivano anche loro in Africa, ma solo dopo che i troll, gli spin-doctor e i mercenari del «cuoco di Putin» hanno fatto da apripista. A tracciare strategie e distribuire mazzette ai leader dell’Africa sono giovanotti di provincia armati di manuali pubblicitari, in un mix incredibile di ambizioni geopolitiche globali e avidità di addetti al marketing intenti a sbranare un budget, gente che con una mano scrive paper che ridisegnano i confini del mondo e con l’altra vende scarpe e posta sui siti di appuntamenti e su Linkedin le proprie foto scattate in missioni segrete in nome della Russia. Gli agenti del Gru che si sono spacciati per «turisti» a Salisbury, dove sono andati ad avvelenare l’ex spia russa Serghey Skripal, a loro confronto sembrano Kim Philby. Anche il capo di questa Spectre di scappati di casa non sembra esattamente un Dr. No: la società mineraria che riesce ad acquisire nell’ambito dei suoi traffici in Madagascar è stata bloccata da scioperi di operai, ai quali non veniva pagato il salario. È un colonialismo low cost, e per ora molto low profile.
Quello che la Russia esporta in Africa, per ora, a parte qualche kalashnikov, è proprio lo spin: i team del «cuoco di Putin» offrono ai loro clienti africani tecnologie elettorali, propaganda e manipolazione di Internet, nient’altro
Il sospetto che dietro alla facciata sgangherata si nascondano i veri attori, i giocatori a scacchi geopolitici dei servizi e del deep state putiniano, viene spontaneo, alimentato dalla foto rubata di Prigozhin ai negoziati del ministro della Difesa russo Serghey Shoigu con il generale libico Haftar (dalle fonti moscovite pare però che gli spin-doctor «cuoco» ormai si stiano spostando su Seif-al-Islam Gheddafi, considerato più maneggevole). Ma un altro leak di un paper degli uomini di Prigozhin, svelato sempre dal centro Dossier e indirizzato a un tale Serghey Fiodorovic – molto probabilmente il generale Rudskoj, capo del Dipartimento operativo dello Stato maggiore russo, avvistato allo stesso incontro con Haftar – sottolinea nel febbraio 2018 che «la Compagnia non ha ricevuto finora un dollaro di profitti» e che «sta agendo in tutto il territorio africano in completa autonomia ed è pronta a continuare a operare senza l’assistenza del ministero della Difesa». Suona quasi come una proposta ai generali di unirsi a una società privata già in attività (anche se Prigozhin la finanzia in buona parte con i suoi appalti sulla fornitura di alimentari all’esercito). Anzi, viene fatto capire che i militari potrebbero perdere una ghiotta occasione, perché lo stesso paper tra le varie prospettive dipinge quella di «preparare il terreno per lo sciovinismo razziale di tipo “negroide” negli Stati Uniti», il famigerato Stato Panafricano che dovrebbe unire l’Africa e spaccare l’America.
Sembra un delirio, ma gli uomini e le donne di Prigozhin sono stati avvistati in prossimità di Kemi Seba, un francese figlio di emigrati dal Benin, con alle spalle espulsioni, condanne e interdizioni per incitazione all’odio razziale. Stavolta i russi hanno abbandonato la tattica della «scommessa su chi detiene già il potere», e hanno puntato su un outsider imbarazzante: con trascorsi nella Nazione dell’Islam di Farrakhan e nelle frange estremiste delle Pantere Nere, Seba è un suprematista della razza nera, un antisemita e negazionista dichiarato. Le nuove linee guida della «Compagnia» predicano infatti la pesca tra le frange più estreme, per gettare benzina sul fuoco dei sentimenti anticolonialisti, ingigantire i contenziosi territoriali e lanciare la campagna contro il franco CFA, la moneta unica dell’Africa francese legata all’euro. Tutto secondo copione, da Brexit a Salvini, e Seba ha bruciato una banconota da 5 mila franchi in una manifestazione convocata dai russi, che hanno organizzato per lui comizi e conferenze in vari Paesi dell’Africa. Di norma, subito dopo l’evento Seba viene espulso dalle autorità locali, qualche volta insieme ai russi, ma a Pietroburgo ritengono che il suprematista nero sia funzionale alla vittoria, in una serie di Stati, di estremisti antioccidentali, per poi creare un’alleanza «panafricana» ovviamente filorussa. Per indottrinare questo Salvini africano nel modo giusto, è stato anche portato a Mosca, a incontrare Alexandr Dughin, l’ideologo dei sovranisti reazionari, dai trumpiani a Savoini.
Convocare i leader africani a Sochi per il «grande rientro» della Russia in Africa, e contemporaneamente foraggiare un estremista che dovrebbe spazzarli via in un equivalente della «rivoluzione sovranista» che Dughin ha sognato per l’Europa, potrebbe essere una strategia diabolica del Cremlino. Così come potrebbe essere soltanto l’ennesimo progetto di marketing dei ragazzi dello spin di Prigozhin. Perché quello che la Russia esporta in Africa, per ora, a parte qualche kalashnikov, è proprio lo spin: i team del «cuoco di Putin» offrono ai loro clienti africani tecnologie elettorali, propaganda e manipolazione di Internet, nient’altro. Non ci sono investimenti, riforme, tecnologie, scuole, aiuti o infrastrutture: solo un manuale su come prendere e mantenere il potere. Lo spin – diventato un mix tra vecchi schemi della propaganda e metodi mediatici 2.0 – è il prodotto di esportazione più importante della Russia dopo il petrolio e il gas, ed è anche la principale attività della politica interna, in quella convinzione orwelliana che manipolare la realtà equivale a governarla. Anche le attività di Prigozhin in Africa sono uno spin: «Il suo segreto è quello di saper vendere a Putin il suo sogno, quello della Russia che torna una potenza mondiale», dice un insider della Compagnia ai giornalisti di Proekt: «È riuscito a convincerlo che potrà competere con i cinesi in Africa». E allora si capisce perché gli emissari del ristoratore pietroburghese buttano soldi su candidati da zero virgola e mandano paper deliranti a dittattori traballanti: l’obiettivo ultimo non è vincere, ma presentare al proprio cliente principale una mappa con pictogrammi che disegni l’estensione dell’influenza russa in Africa. Anche la conferenza degli africani a Sochi è un «Putin’s spin», come nota con perspicacia Foreign Policy, sostenendo che il vertice – i cui risultati l’autorevole rivista giudica come quasi nulli – è servito soltanto ad alimentare l’immagine della Russia che partecipa alla pari ai giochi mondiali. In un Paese che ha brevettato nei villaggi Potiomkin il primo spin della storia, «niente è vero, tutto è possibile», come recita il titolo del divertente libro di Peter Pomerantsev sulla propaganda russa (pubblicato in Italia da Minimum Fax), e allora si può fantasticare sullo Stato di «sciovinismo negroide» in Louisiana e scarrozzare in giro uno che ha incitato ai pogrom di ebrei a Parigi. Paradossalmente, sarebbe quasi da preferire l’ipotesi che dietro al baraccone di Prigozhin ci siano i generali, dai quali ci si potrebbe aspettare forse almeno una qualche valutazione dei rischi, dei costi e delle fattibilità. Ma se siamo in mano al colonialismo low cost dei ragazzi dello spin, intruppati da un ex criminale diventato un ristoratore a caccia di appalti, scateneranno la Bestia sul continente africano senza alcuna remora, per poi magari lanciare un’altra campagna di propaganda, sull’Europa invasa da una nuova ondata di profughi dall’Africa. Che stavolta non sarà più un fake.