Con uno slogan d’effetto, Chi Odia Paga, alcuni giorni orsono è stato annunciato l’arrivo di una piattaforma digitale che mira a supportare dal punto di vista legale, in tempi brevi e a costi contenuti, le persone vittime di odio online. Con un clima sociale mefitico come quello attuale in cui, solo per fare un esempio, di tutti i tweet fatti, oltre il 70% contiene messaggi d’odio, non potevamo non aspettarci la nascita di uno strumento che sappia aiutare le persone comuni a ottenere giustizia per una serie di reati che si stanno pericolosamente radicando nei nostri usi e costumi e che costituiscono una vera emergenza culturale prima che giurisprudenziale.
Perché? In primo luogo, in virtù del fatto che la maggior parte delle persone hanno serie difficoltà a capire che alcuni comportamenti, atteggiamenti, azioni e linguaggi sono dei veri e propri reati. Una assenza di consapevolezza che unita alla superficialità nella gestione delle potenzialità deflagranti dei social media, stanno facendo prosperare questo brutto virus che si manifesta a volte in forma di diffamazione a volte di stalking o di revenge porn o di cyberbullismo o di hate speech.
Il recente caso costruito attorno alla senatrice Segre e il conseguente scandaloso vociare che di rimbalzo in rimbalzo è diventato terreno di scontro tra odiatori e odiatori degli odiatori, in una caduta senza fine.
C’è da aggiungere poi che, se da un lato difendersi da questi reati, e farlo in un modo corretto proficuo ed efficace, è difficile per via dei costi, dei tempi non brevi e dell’accessibilità al sistema, dall’altro compierli è estremamente facile. Prova ne è per esempio il recente caso costruito attorno alla senatrice Segre e il conseguente scandaloso vociare che di rimbalzo in rimbalzo è diventato terreno di scontro tra odiatori e odiatori degli odiatori, in una caduta senza fine.
Allora oltre a chiederci cosa ci sia dietro a questo fenomeno che appare inarrestabile a tutti i livelli, e a cosa possiamo fare per semplificare l’accesso alla giustizia per le persone che ne diventano vittime, dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per sovvertire un trend oramai diventato un disvalore sociale, e contribuire attivamente a diffondere la consapevolezza che un conto è esprimere la propria opinione, un diritto inviolabile, un altro è compiere un reato con la propria opinione.
È certamente l’impresa più ardua e faticosa che la nostra epoca ci sta riservando e che al momento stiamo fallendo. Non smetterò mai di ricordare che la chiave è nel riconoscere nell’incontro con l’altro la nostra sola possibilità di trovare risposte a domande essenziali. E invece di dedicarci a questo, di norma ci arrocchiamo testardamente sulle nostre posizioni, pensando che alla fine ad avere torto sia sempre l’altro.
L’educazione dovrebbe essere proprio questo: il principale strumento a nostra disposizione non per radicarci nelle nostre convinzioni, ma per mettere in discussione ciò che pensiamo di sapere
In questo modo perdiamo l’occasione di riflettere sulle differenze che distinguono noi dagli altri, me dall’altro. L’educazione dovrebbe essere proprio questo: il principale strumento a nostra disposizione non per radicarci nelle nostre convinzioni, ma per mettere in discussione ciò che pensiamo di sapere. Educarci alla sensibilità è il modo che ci consente di entrare in relazione con l’altro riconoscendolo come un altro me stesso, anziché essere distorti dall’intolleranza che ci induce e vedere in lui la diversità.
E proprio la complessità del nostro mondo odierno, dilaniato da tensioni sociali e crisi economico-valoriali, ci richiede di manifestare questa nuova abilità ora. Dobbiamo esprimere un più alto livello di ascolto e maturare nuove comprensioni, sapendo riconoscere tutta la ricchezza che c’è nella diversità.
O noi impariamo a convivere nella differenza, ma senza indifferenza, o resteremo i barbari che siamo diventati. Per questo dico che ogni uomo ha innanzitutto l’obbligo di educarsi ma ha anche quello di essere a sua volta un educatore. E mentre aspettiamo che la politica si adegui convertendosi a questa necessità civica, e che la religione si sappia rinnovare nelle sue forme e nei suoi messaggi, io penso alla responsabilità che in tal senso debbono prendersi anche le aziende contemporanee diventate centrali nel compito essenziale che recitano nella società civile: essere modello di questo cambiamento, divenendo col loro operato motore della diffusione di una nuova etica laica.