L'anniversarioSilvia Romano praticamente dimenticata a un anno dal rapimento. Civati: continuiamo a parlarne

Il 20 novembre 2018 la volontaria veniva rapita in Kenya. Dopo tante polemiche, ad un anno di distanza è quasi sparita dalle pagine dei giornali e dal dibattito pubblico. Ma c’è ancora chi si ricorda di lei. E ora chiede chiarezza

Foto tratta dal profilo Facebook di Silvia Romano

È trascorso un anno. Un anno esatto da quando Silvia Romano, volontaria di soli 23 anni, in Kenya per un progetto umanitario in un piccolo villaggio, fu sequestrata da un gruppo di criminali locali, senza più essere ritrovata. I giornali, quel 20 novembre del 2018, aprirono con le foto dei suoi sorrisi, circondata da bambini, gli abiti colorati e festosi. Un anno è passato, ma ancora la domanda non ha trovato risposta: dov’è Silvia? Le indagini proseguono, ma quel che si sa è poco: i rapitori sono stati identificati, ma nel frattempo la ragazza sembra essere stata ceduta ad un gruppo legato ai jihadisti di Al-Shabaab e portata in Somalia. L’ultimo annuncio dell’intelligence risale a settembre: «Silvia Romano è viva e si sta lavorando per portarla a casa».

Fin dalle prime ricostruzioni la storia della ragazza era diventata oggetto di polemica: una polemica spesso insensata, crudele, alimentata soprattutto dalla scarsità di informazioni disponibili. C’è chi disse che non sarebbe mai dovuta partire, chi la tacciò di essersi islamizzata. A quel punto le istituzioni avevano smentito, ma la volontaria era comunque diventata un bersaglio per gli odiatori del web. Poi, di colpo, più nulla o quasi. E così Silvia è stata, di fatto, superata. Fortunatamente, però, c’è chi non si è dimenticato di lei, così come del marcio che è circolato sui social network (e non solo). Giuseppe Civati, leader di Possibile ed ex parlamentare, le ha regolarmente dedicato un pensiero, affidandolo ai social network, per ricordare a tutti che per Silvia è la speranza che possa finalmente tornare a casa. E che ora chiede chiarezza a chi si sta occupando del caso: «Credo sia doveroso che a un anno di distanza ci sia una comunicazione ufficiale del nostro esecutivo sulla situazione di Silvia Romano. Troppe le voci ufficiose, troppe le mezze verità, troppi i pettegolezzi», ha scritto su Twitter, seguito dal fondatore e presidente emerito di Intersos e Policy Advisor di Link 2007 Nino Sergi, che ha indirizzato una lettera aperta al generale Luciano Carta, direttore dell’Aise, i servizi di intelligence esterni, dicendo: «Dodici mesi sono tanti. A chi attende la sua liberazione sembrano interminabili. […] Quanto le scrivo esprime l’inquietudine di molte persone per la sua liberazione e la sua vita: tante voci che fanno da sottofondo a questa nuova lettera aperta».

Civati, lei è tra coloro che non hanno mancato di ricordare Silvia Romano con costanza. C’è un motivo per cui si è preso a cuore questa vicenda?
Per me tutto nasce da quei primi giorni in cui il caso fu trattato con molta superficialità, penso ad esempio all’articolo di Gramellini, sul filo del “chi te l’ha fatto fare”. In altri casi invece è stata commentata proprio con volgarità; erano i mesi più pesanti nel confronto pubblico sulla questione dell’immigrazione, dell’Africa, dei porti. Mi colpì che in questa rissa mediatica continua finisse in mezzo una ragazza che faceva del bene e che poi era stata rapita in circostanze misteriose. Mi sembrava, oltre che un caso doloroso, anche una questione di civiltà, sia sul fronte dell’uso delle parole che, più in generale, del rispetto verso le persone. Era una storia rappresentativa di quella che è l’Italia in questo momento. Ho cercato con molte difficoltà di raccontare l’evoluzione di questo caso, pur trattandosi di una evoluzione limitata. Anche le ultime informazioni infatti sono lontane dall’essere precise o definitive, e sul fatto stesso che sia viva rimane una certa angoscia. Se ne parla in modo molto laterale.

«Se ne sono dette fin troppe di cose, e molte di queste sono prive di fondamento o non rilevanti. Quando le vicende non vengono raccontate è facile che proliferino versioni quantomeno inaccurate»


Giuseppe Civati

Lei è in contatto con i familiari?
Io non ho mai avuto il piacere di avere una relazione con loro, ma abbiamo pubblicato un libro a lei dedicato anche per offrire l’occasione di un confronto. So che sono molto preoccupati che circolino informazioni imprecise e potenzialmente controproducenti. Perciò hanno osservato un grandissimo riserbo in questi mesi. Unica eccezione quella giorno del compleanno di Silvia, quando il papà ha scritto un messaggio sui social network che è stato molto condiviso. Per il resto hanno sempre evitato di confondere i piani, e del resto anche noi siamo stati prudenti, se ne sono dette fin troppe di cose, e molte di queste sono prive di fondamento o non rilevanti. Quando le vicende non vengono raccontate è facile che proliferino versioni quantomeno inaccurate. Alcuni giornali hanno persino raccontato di una sua islamizzazione: a quel punto anche le fonti istituzionali hanno dovuto smentire.

Probabilmente i servizi di intelligence sanno più di quanto ci possono dire?
Il punto non è saperne di più per farne ricostruzioni giornalistiche o strumentalizzazioni politiche, la nostra richiesta è semplicemente una presa di posizione del nostro esecutivo. Una presa di parola, proprio come forma di rispetto verso la famiglia. Non vogliamo pretendere di sapere ciò che non si può sapere. Sappiamo che l’impegno è aumentato quest’estate, l’indagine è stata portata sul campo, il processo è stato avviato. I contorni restano sfumati, ma c’è stata una ripresa delle indagini. Io sono certo che i servizi stiano facendo quello che devono. Qui si tratta di sapere se il ministero degli Esteri, i magistrati, i Ros e la procura hanno la possibilità di raccontarci una storia veritiera, il 20 novembre dell’anno dopo. Questo chiediamo.

Serve dare piena fiducia alle istituzioni, quindi?
Previsto che tutti fanno esercizio muscolare di italianità, si tratta proprio della risposta che dà il nostro Paese per il salvataggio di questa persona, anche dal punto di vista della qualità del dibattito pubblico. Chiediamo che se ne parli in modo documentato e rigoroso.

Qualcuno ha più responsabilità di altri nel rendere conto delle indagini?
C’era stato un passaggio, mesi fa, in cui sembrava che Salvini avesse detto che noi non avremmo pagato il riscatto. Forse era una cosa che non aveva detto o che aveva smentito subito, in ogni caso non credo ci sia stato un gioco così meschino. Certo è che la via della riservatezza però non deve diventare un non parlarne più. Questo sarebbe grave quanto parlarne in maniera imprecisa. Un equilibrio si può trovare. Come tantissimi, la vivo anch’io con questo spirito. Non è facile, penso che si tratta di una ragazza giovane, che è andata per le ragioni più belle a fare una cosa rischiosa, ma in assoluta buona fede, ed è ricordata per questo.

«Il punto è tenere viva l’attenzione in modo rigoroso, senza fare pasticci o qualunquismi. È un momento che richiede rispetto, e speriamo davvero che questa ragazza sia riportata a casa»

Che cosa potrebbe fare di più lei e che cosa può fare la società civile?
Non essendo più in Parlamento, è ai parlamentari che mi rivolgo, facendo questo segnapunto giornaliero, ricordando che abbiamo questo problema da risolvere. Secondo me il punto è tenere viva l’attenzione in modo rigoroso, senza fare pasticci o qualunquismi. È un momento che richiede rispetto, e speriamo davvero che questa ragazza sia riportata a casa. Il tempo lungo non ci deve far pensare male, in diversi casi in passato ci sono voluti mesi per aprire le trattative o scoprire dove erano gli ostaggi. Ora è venuto il tempo di capire se si arriva alla soluzione. C’è speranza che le cose si risolvano. Purtroppo però non c’è molto altro che si possa fare.

Che cosa direbbe alla famiglia e a Silvia, se tornasse a casa?
Ogni tanto ci penso, sicuramente sarei felice. Con il passare del tempo ci si affeziona alle cose, è naturale farlo. Alla famiglia vorrei trasmettere tutta la mia vicinanza, riporto loro la sincerità e l’affetto di tante persone. Dovrebbero sapere che non c’è solo la brutalità dei tweet e delle cretinate, c’è anche una buona parte di questo Paese che è in attesa a sua volta. Io mi sono messo a scrivere sui social perché mi sembrava che la questione stesse passando in secondo, terzo e ultimo piano, facendo da sfondo in questo Paese. La retorica passa troppo facilmente da un pur discutibile “aiutiamoli a casa loro” a poi, quando uno lo fa davvero, il “se l’è cercata”. La reazione a questo è diventata una comunità di persone che oggi spera che Silvia torni a casa. E ci spero tanto anch’io.

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Oggi, la vicenda di Silvia Romano è raccolta in un libro, pubblicato dalla casa editrice che Civati ha contribuito a fondare recentemente, intitolato Silvia. Diario di un rapimento, a cura del giornalista dell’AGI Angelo Ferrari (la prefazione è di Antonella Rampino e la copertina di Mauro Biani). Un’«occasione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti di Silvia Romano e anche di se stessa, rispetto al modo che ha di affrontare le cose e di parlarne». Perché la storia di Silvia Romano racchiude in sé anche una «questione di civiltà» sul fronte dell’opinione pubblica, un caso che dovrebbe costituire occasione di riflessione su come si approcciano le questioni, nel rispetto della persona e del dramma che la accompagna. Perché troppo spesso, in questo Paese, non succede più. Il libro, disponibile in libreria e tramite e-commerce, è stato prodotto gratuitamente. I proventi delle vendite saranno devoluti in beneficenza, per la cooperazione.

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