Al di là del bene e del male – come solo per amore o per vendetta – davanti al pericolo siamo quello che siamo.
Bailando, bailando, bailando, bailando. Ese fuego por dentro me está enloqueciendo, me va saturando…
Messo alle strette da quell’allarme latino, Roberto Franzini è un toro a Pamplona in preda alla confusione della folla di turisti urlanti venuti a vederlo inciampare contro il tavolino del divano, imprecare e ricadere orizzontale nell’unico angolo abitabile della malandata casa cantoniera in cui vive, in rocambolesco stato di ristrutturazione da quasi due anni.
Quella fastidiosissima melodia è lì che suona ininterrottamente da qualche minuto. O forse da ore. Che abbia lasciato la radiosveglia accesa? Ma se l’ha scagliata contro il muro mesi fa, per difendersi dall’attacco di un Jovanotti inneggiante alla vita (oh, vita!) già intollerabile in una giornata normale, figurarsi il giorno di Pasqua, in ritardo da ore per il pranzo dai suoi.
Che se la stia sognando? Un incubo reggaeton sarebbe un bel paradosso. Sono anni che la sua attività onirica sana, quella che intesse in deliranti tableaux narrativi desideri e paure, è andata a farsi fottere e delle fantasie notturne non emerge alcuna traccia esorcizzabile alla luce del giorno. Colpa dei turni che gli scombinano i bioritmi, naturalmente. Delle partite notturne su Chess.com in cui sacrifica pezzi su pezzi fino all’alba. O forse, si dice con un’onestà che non saprebbe reggere durante le ore di veglia, l’uomo che ansima in bilico tra il risveglio e l’oblio, un qualche ruolo potrebbe giocarlo anche la sua “relazione complicata” con la bottiglia.
Roberto, grugnendo forte, sgrana gli occhi: è a casa sua. Sembra tutto – per modo di dire – al suo posto. E quella dannata musichetta viene dal telefonino, che squilla indifferente al suo stato confusionale. Risgrana gli occhi finché non raggiunge una nitidezza accettabile: è Anja, che per qualche strana vocazione masochistica non si è ancora tolta dalla testa l’idea di salvargli la vita. Non rendendosi conto che le sue chiamate, dando la stura a quel disgustoso ritmo latineggiante, si assommano alle sante ragioni per cui Roberto dubita sinceramente di voler essere salvato. Devono avergliela impostata gli altri mentre dormiva in camerata. Ma come hanno fatto a scoprire anche il nuovo pin? Che avessero beccato lo storico 1312 ci poteva stare, ma come hanno fatto a scoprire quello nuovo, 230827 (la data dell’infame esecuzione di Sacco e Vanzetti)? Possibile che anche i pompieri di Busalla, tradizionalmente immuni allo spazio tempo contemporaneo, a furia di rincoglionirsi su Facebook si siano trasformati in fottutissimi hacker?
Vorrebbe portarsi le coperte sopra la testa e affogarci orecchie, fronte, cervello, ma gli basta lanciare uno sguardo oltre il bordo del divano letto, rigorosamente chiuso, per accorgersi che sono a terra, i lembi in bocca a Baldo, il Jack Russell color caffellatte in forze all’unità cinofila dei Vigili del Fuoco, con un passato da cane poliziotto, che Anja era riuscita ad appioppargli a tempo indeterminato, come il più subdolo dei suoi disperati tentativi per farlo rigare dritto.
«Non aprire gli occhi, non aprire gli occhi, non aprire gli occhi» si ripete. Ma, perdendo la sua quotidiana guerra con la razionalità, se ha visto Baldo, vuol dire che quell’incorruttibile vigilante ha visto lui, e ora comincerà ad abbaiare, guaire, ringhiare e scodinzolare tirandolo per i pantaloni. Che, sfortunatamente, indossa ancora.
Va avanti così da quasi un anno: ogni mattina che deve prendere servizio parte quella lunga serie di esternazioni canine che potrebbero riassumersi in un «Alza il culo belina, fémmu tardi!». Per carità, decisamente utili per evitare il licenziamento. Baldo è molto più affidabile del calendario dei turni comodamente consultabile tramite app, che Roberto, fedele all’unica app del suo cuore, Chess.com, ancora più comodamente si rifiuta di consultare.
Solo che, da quando Anja ha intensificato le sue pressioni per farlo bere meno, il piccolo Baldo fa il diavolo a quattro tutte le mattine, con il preciso mandato di buttarlo giù a un’ora decente e costringerlo a ritmi di vita più salutari; il risultato è che Roberto, programmaticamente confuso e riluttante a ogni forma di chiarezza, non sa più se alzarsi davvero o girarsi dall’altra parte. Sarà in servizio o non sarà in servizio questa mattina? E, in caso lo fosse: che diavolo di ore saranno?
Nell’affannata ricerca del tabacco, caracolla tra pile di vestiti sparsi, piatti da lavare, posaceneri che rigurgitano mozziconi di sigarette senza filtro e più di un fantasma da tenere lontano dal ciclotimico dedalo di quei pensieri ossessivi che, specchio riflesso dei suoi desideri, gli conferiscono un’aria perennemente ironica e dolente. Incrocia le mani dietro la schiena e s’incurva, l’enorme balena bianca tatuata sul petto a rattrappirsi come un vecchio palloncino a elio del Luna Park. Tutti i fardelli di un quasi quarantenne alla resa dei conti con se stesso sono lì, in quei 17 metri quadri abitabili dei quasi 200, sui due piani (più giardino) del parallelepipedo malintonacato, pieno di spifferi e improbabile fascino, eretto nel più umido crocevia della terra di mezzo del triangolo industriale. Dove Roberto sta scontando l’ultimo anno della sua giovinezza. Rabbiosamente determinato a dimostrare, con lo spettacolo delle macerie della sua vita, che un giorno senza rischio è un giorno non vissuto.
da Un uomo in fiamme, di Marco Cubeddu, Giunti (2019)