La vita bugiarda degli adulti
Perché il nuovo romanzo di Elena Ferrante è irresistibile e, come sempre, con qualche limite

Titolo bello, copertina così così, travolgente narrazione in prima persona. Un libro con tutti gli elementi per far identificare e far immaginare il lettore, ma che confina con l’assuefazione mista a devozione

Foto da Facebook

È uscito il nuovo romanzo di Elena Ferrante e, come sempre, l’ho cominciato dicendomi: ne leggo un po’ e poi lo lascio, invece l’ho finito staccando il telefono ed estraniandomi dalla realtà circostante. Ho goduto da lettrice, ho trovato la consueta intelligenza narrativa, personaggi verosimili e temi “ferrantiani” e, a dispetto di questo oppure per questo, ho messo da conto qualche perplessità.

La vita bugiarda degli adulti ha un titolo molto bello e una copertina così così. Come gli altri libri di Ferrante, è scritto in una prima persona che crea un’identificazione assoluta tra la signora napoletana che immaginiamo come un fantasma e l’io che narra questa storia, che, come tutte le altre, si svolge a Napoli con riferimenti topografici e odonomastici precisi, e, come tutte le altre, è (anche) una storia famigliare. Quest’identificazione, ovvero il patto di verosimiglianza su cui si basa una parte del successo della letteratura ferrantiana, è così tangibile che mai il lettore la mette in discussione, e tuttavia si fonda su un assunto ingenuo e impossibile, non solo perché le protagoniste dei libri di Ferrante hanno di volta in volta nomi ed età diverse (del resto, non si sa nemmeno che nome abbia lei), ma anche perché, per essere davvero il soggetto trasfigurato di tutte le sue storie, lei stessa dovrebbe avere vissuto più d’una vita. O forse no: è una vita soltanto, vagliata alla lente di sguardi svariati – del resto, non è l’arte spontanea di uno scrittore magistrale quella di creare un romanzo in potenza per ogni segmento della sua storia?

La vita bugiarda degli adulti ha la grandezza di tutti i romanzi della scrittrice Elena Ferrante e insieme non fa fare un passo avanti alla scrittrice Elena Ferrante

Non si tratta solo di un sezionamento temporale: gli stessi anni, nella memoria, nascondono episodi plurimi e plurime versioni di noi. La protagonista della Vita bugiarda degli adulti è nata – lo scrive lei stessa – il 3 giugno 1979 ed è figlia di una correttrice di bozze che per un attimo e un sussulto mi si sovrappone alla traduttrice dei Giorni dell’abbandono. Non mi soffermerò a mostrare accavallamenti e isomorfismi nei romanzi di Elena Ferrante – certo è che ci sono dettagli leggibili come ascisse e ordinate, incroci e cruciverba – e anche quello è motivo del suo successo, il discostarsi sempre un poco, ma non troppo, da infinite variazioni di una stessa famiglia, di una stessa saga, fino a far identificare quest’epopea con Napoli tutta intera, per cui non si capisce più dove finisce Ferrante e dove inizia la città. Anche stavolta tutto si regge sulla tenuta narrativa: a scrivere è qualcuno che sa dei suoi personaggi più di quanto scrive (che siano veri, che siano inventati, che siano trasposti: che importa?) e anche stavolta i toni sanno farsi cupi e sgradevoli, pure se la morbosità non ha qui la stessa forza da incubo di altri libri, è appena più composta, allisciata. Fin dall’inizio, è centrale il tema del doppio – un classico dei romanzi di Ferrante, esploso nella tetralogia: qui sono zia e nipote, unite da una presunta bruttezza («sta facendo la faccia di Vittoria» è la frase del padre che rompe tutto e fa da abbrivio), e legate in modo sottile e insolubile dalla falsità degli altri («Tuo padre da quindici anni ha un’altra moglie» e «Anche tu, comunque, hai un nuovo marito» sono le frasi che chiudono la terza parte.)

Adesso che ho elencato tutto ciò che mi è piaciuto, come sempre, del nuovo romanzo di Elena Ferrante, il limite viene fuori da sé, nel “come sempre”. Non sapendo chi sia la scrittrice napoletana che ci piace immaginare nella penombra di una casa partenopea, con accesso limitato a internet e molte ore libere per scrivere, è difficile applicarle idee e ipotesi di crescita o decadenza narrativa. Ogni volta che sento qualcuno commentare che la mano che ha scritto L’amore molesto non può essere la stessa dell’Amica geniale, o che è evidente che tutto ciò che ha scritto Ferrante non può che venire da una donna (o da un uomo, o da un collettivo, o da quel tale scrittore – sempre con la stessa sicumera), non posso fare a meno di immaginare la donna fantasma di Napoli che improvvisamente si affaccia alla finestra e capovolge le certezze di quel commentatore. Quanti sono gli autori di cui non riconosceremmo la mano, se non avessimo visto il loro nome in copertina? E chi stabilisce in che misura un artista abbia il diritto o il dovere di crescere, decrescere, differenziarsi? Ci sono scrittori ai quali si rinfaccia di scrivere sempre lo stesso libro e altri ai quali, con la stessa riprovazione, si fa notare che le prime opere erano più ingenue delle seconde o le seconde un tradimento delle prime. In tutti questi casi c’è la proiezione di un’ipotesi, ma per Elena Ferrante e il suo mistero le proiezioni assumono tratti grotteschi. Cerchiamo nei suoi libri ricorrenze di oggetti, visi, professioni, personalità, episodi e rioni; la sua maestosità, in un’attesa e consolidata abitudine, ha in sé la domanda con cui ogni volta l’opera deve confrontarsi: quante volte possono combinarsi tasselli pur diversi, ma in fondo limitati, sullo stesso tavolo da gioco? La vita bugiarda degli adulti ha la grandezza di tutti i romanzi della scrittrice Elena Ferrante e insieme non fa fare un passo avanti alla scrittrice Elena Ferrante: le due cose hanno a che fare l’una con l’altra ed entrambe con la questione del logoramento, e del suo confine con l’assuefazione, o la devozione. Come sempre (come sempre!) la risposta è rimandata: al prossimo romanzo di Elena Ferrante.

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