Fake news, echo chamber, profili inventati, hater e razzismo in rete. Forse una via d’uscita c’è e potrebbe arrivare dallo stesso creatore di Wikipedia. Jimmy Wales, partendo dall’esperienza di Wikitribune, strumento dove vengono pubblicati articoli e notizie verificate, ha deciso di creare Wt. Social. Ovvero la sua traduzione come social network. Una via di mezzo tra Facebook, di cui riprende la grafica, e di Twitter, da cui trae invece la costante attenzione all’attualità e alle opinioni. Con una piccola (grande) differenza: è a pagamento.
Secondo Wales è proprio qui il peccato originale di Facebook (ma non solo): il suo modello di business. Offre un servizio gratis agli utenti ma al contempo vende spazi pubblicitari. Questo lo ha spinto, nel tempo, a favorire tutte le interazioni che si rivelano più profittevoli dal punto di vista dell’advertising, con le conseguenze ormai note a tutti. Favorisce notizie sensazionalistiche, se non proprio false (i tentativi di metterci una toppa, dopo gli scandali degli ultimi anni, appaiono ancora troppo timidi), tollera, per non dire invita, scambi violenti tra gli utenti, snatura le gerarchie stesse di interesse dei post attraverso campagne a pagamento. Alla fine il mondo degli hater, che sì, sono sempre esistiti, ha trovato sui social una inattesa incubatrice. Sono diventati più grandi, come numeri e massa, hanno cominciato a riconoscersi e gli effetti – disastrosi – si sono visti anche offline.
Allora, sostiene Jimmy Wales, se si paga, attraverso donazione, per partecipare (12 euro al mese o 90 euro all’anno, queste le cifre se si vuole saltare la waiting list) questi problemi non ci sono. O almeno, non vengono incoraggiati a livello strutturale, che è già tanto. Il business delle micro-donazioni, con cui da anni si regge Wikipedia (ormai un punto di riferimento mondiale, anche se non certo priva di difetti e limiti, per le informazioni enciclopediche) permetterebbe anche di uscire dalla galleria dello sfruttamento dei dati. Non occorre più raccoglierli per rivenderli (che è appunto il business su cui si fonda Facebook) e gli utenti, che diventano clienti paganti, non sono più il prodotto finale – o meglio, per usare una metafora più esatta, non sono più gli “animali che vengono spolpati”.
Tutto sommato è una strada che, prima o poi, sarebbe stata percorsa. Come spiega al Financial Times, le persone su Internet si sono ormai abituate a pagare per avere servizi di qualità. Lo si è visto con Netflix, con Spotify e con le iniziative di grandi giornali come il New York Times. È sempre maggiore la richiesta di contenuti di alto livello, contrapposta alle operazioni di click-baiting che hanno condizionato alcuni ambienti e settori. Insomma, si può fare in modo diverso.
Dal punto di vista finanziario, però, appare ovvio che WT.Social non possa puntare al profitto. Per ora, anche grazie all’effetto novità, ha raggiunto 50mila utenti, in un trend positivo (rispetto alla settimana precedente, ha raddoppiato). Tra questi hanno fatto la loro donazione più di 200. Sono numeri basssissimi, soprattutto se si considera che Facebook, tuttora il più grande di tutti, supera i due miliardi. «Il nostro obiettivo non è certo 50mila, o 500mila. Vogliamo arrivare almeno a 50 milioni, o 500», dice. In ogni caso, visti i flussi di entrata, il sito dovrà accontentarsi di essere sostenibile – cosa che nella realtà digitale è già tanto.