Grand UnionLa coerenza della contraddizione: perché il nuovo libro di Zadie Smith è un capolavoro

È la prima raccolta di racconti della scrittrice inglese: sono 19, alcuni brevi, altri brevissimi. Ognuno di loro è un tentativo (riuscito) di mettere in scena un mondo frammentato, solitario e disperato

Brad Barket / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / AFP

Ogni storia è un tentativo di descrivere la realtà. Di più, è un tentativo di identità. Massima che non varrà per tutti gli scrittori ma che è perfetta per Grand Union (edito da Hamish Hamilton), la prima raccolta di racconti dell’autrice inglese Zadie Smith. Tentativi variegati, va detto. Alcuni forse troppo bruschi, a volte affrettati, a volte superficiali.

Ma è inevitabile. Il libro si propone come un grande manuale di esperimenti. Per la precisione, 19: alcuni già pubblicati, alcuni inediti. Alcuni straordinari, alcuni non proprio memorabili. C’è l’autofiction, la satira sociale, la parabola, il racconto distopico. C’è anche la cronaca. C’è una immensa varietà di personaggi, situazioni, stili – dall’ex poliziotto all’inizio del divorzio al professore che viene messo a tacere per le sue opinioni non corrette, fino a una figura di creatore che potrebbe benissimo essere lei stessa o, perché no, una divinità. L’ambiguità è voluta.

Ma anche l’incoerenza di fondo del volume lo è. In un certo senso, lo riconosce lei stessa in un articolo, scritto un mese dopo l’uscita del libro, sulla New York Review of Books: «Ho sempe saputo di avere una personalità incoerente. Di avere una moltitudine di voci che fanno a pugni nella mia testa», inizia. È il suo modo di intendere – ne discute più avanti – il celebre verso di Walt Whitman, «Mi contraddico? / Molto bene mi contraddico / sono grande, contengo moltitudini». Una visione che sente vicina al suo modo di essere, anche se – precisa – il verbo “contenere”, che insieme “possiede” ma anche “delimita”, non la convince molto. I tempi sono cambiati, spiega, e così i concetti. E in questo contesto, in cui l’idea che scrivere sia «raccontare ciò che conosci» somiglia sempre di più a «stai al tuo posto», l’idea che la scrittura possa essere misura della realtà in un certo senso la conforta, ma la spaventa. E allora prova a sfidarla.

È una impostazione di pensiero chiara, pur nel suo essere contraddittoria. E così è Grand Union: una sfida continua alle regole e alle convenzioni, nel suo essere ricco, vario, stratificato e incoerente. Se alcuni esperimenti si rivelano simpatici nelle intenzioni, come il racconto della fuga di Michael Jackson, Elizabeth Taylor e Marlon Brando da New York durante l’11 settembre, la loro resa a volte appare stanca. Anche l’idea distopica di una giornata di un ragazzino perso nel suo videogioco di guerra appare affascinante nelle premesse, ma debole nella sua costruzione. Nonostante la sua esperienza di romanziera, celebre per capolavori come Denti bianchi, il meglio di sé lo dà nel racconto evocativo, breve, il meno strutturato possibile. Come For the King, per esempio, che narra soltanto l’incontro tra due amici di lunga data che si scambiano impressioni sul mondo, ma che nel vortice del non detto, del pensato, del soltanto intuito, è contenuto (ancora questa parola) un romanzo intero. E così lo sguardo lento sul corso d’acqua artificiale di un resort spagnolo, sempre in movimento, din The Lazy River, dove ognuno galleggia a modo suo, è occasione di metafore a profusione, sempre meno banali e sempre più incorporee.

La narrazione «manipola» sempre: a seconda della provenienza è «propaganda» o «racconto»

Poi c’è la metascrittura. Grand Union è anche una riflessione, sfaccettata, sull’arte di raccontare. Come dichiara la stessa scrittrice, «è giusto che tutti si interroghino su cosa faccia la narrazione sulla realtà». E così rompe la quarta parete del racconto, interrompe il flusso naturale degli eventi e inserisce anacronismi inaspettati, riflessioni estemporanee: mostra i trucchi del mestiere. «È un modo per costringere il lettore a notare l’artificialità della scrittura». E invitarlo a non lasciarsi andare nel flusso «del realismo».

In modo brechtiano, è un tentativo di «invitarlo a leggere con gli occhi aperti», cioè a riflettere. Su cosa? Sul senso stesso del suo lavoro, a quanto pare: lo si vede in Now More Than Ever, in cui dal punto di vista di un professore (nota: lei insegna alla New York University), viene descritta (e criticata) una lettura astorica della realtà, in cui l’appiattimento sul presente è diventato ideologia dominante da rispettare (pena l’esclusione dal consesso civile), o ancora di più in Kelso Deconstructed, che racconta (storia vera) l’ultimo giorno di Kelso Cochrane, un immigrato di Antigua in Gran Bretagna, la cui uccisione susciterà forti tensioni a Londra. Qui lo dice in modo aperto: la narrazione «manipola» sempre, e a seconda della provenienza è «propaganda» o «racconto». Per questo inserisce, in un passaggio neutro del racconto, una email fittizia: «Ci sono cose che sono impossibili da capire o accettare come frasi dirette», recita il testo, «ma solo in via marginale, fuggevolmente comprensibili sotto forma di storie. A volte mi chiedo davvero se ci sia qualcosa di intrinsecamente disonesto nell’approccio, che trasforma il romanzo in un tipo di parabola o di illustrazione di precetti anziché essere una onesta narrazione». Forse è qui, nel suo essere «onesta» o meno, che la contraddittorietà del libro si dimostra una sfida, voluta e cercata più di quanto si immagini. Una sfida, appunto, non a un principio logico, ma a una visione etica della realtà.

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