Due dei momenti chiave degli ultimi anni sono le audizioni di Mark Zuckerberg davanti alle commissioni del Congresso degli Stati Uniti. La prima volta, quella a suo modo storica tra il 10 e l’11 aprile 2018, in relazione all’enorme scandalo relativo allo sfruttamento dei dati da parte di Cambridge Analytica (un vero momento di passaggio tra il prima e il dopo per la reputazione del più importante social network del pianeta); la seconda volta il 24 ottobre 2019, quando il fondatore di Facebook è stato pungolato non da un manipolo di deputati boomer su questioni che conoscono in modo sommario, ma da Alexandria Ocasio-Cortez, parlamentare millennial che fonda su un uso consapevole dei social una buona fetta del dialogo con il suo elettorato di riferimento (e non). In quei momenti Facebook entra veramente nell’agenda pubblica della politica e costringe tutti — sia chi lo usa, ma soprattutto chi lo gestisce — a fare i conti con i problemi e i rischi che negli ultimi anni ne hanno minato la credibilità e hanno generato tonnellate di analisi sui rischi a lungo termine che un uso disinvolto dei dati, della privacy e dell’emozione come motore della costruzione del consenso dentro la cornice del capitalismo delle piattaforme (secondo la definizione di Nick Scrncek) e la logica del capitalismo della sorveglianza (per riprendere Shoshanna Zuboff) comporta per la democrazia e per la vita delle persone.
Alla ormai considerevole bibliografia su come i social network (e in particolare Facebook, anche se fra poco immaginiamo sarà il momento di Instagram e di tiktok) ci stanno fottendo il cervello si aggiunge Zucked. Come aprire gli occhi sulla catastrofe di Facebook (Nutrimenti, traduzione di Ilaria Oddenino), una sorta di indagine/memoir scritta da Roger McNamee. L’elemento interessante di questo libro, però, non sta tanto nelle cose che si scrivono — niente che chi abbia seguito un minimo il dibattito non sappia già — bensì nella natura dell’autore. McNamee non è un giornalista; non è un data scientist; non è un politico. È, anzi, un investitore, un capitalista che di mestiere genera soldi dai soldi. Quel tipo di personaggio che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni che da un lato ti dice quanto è stato hippie nella sua gioventù con la chitarra e i concerti dei Grateful Dead (e infatti ad un certo punto finisce a valorizzare il catalogo della band di Jerry Garcia ed è talmente rock’n’roll che crea una società di investimenti di nome Elevation con Bono degli U2) e quanto sia lontano dall’ideologia libertaria aynrandiana dei cattivi come Peter Thiel; dall’altro, invece, rispetta in tutto e per tutto quella sorta di slancio vitale rappresentato dall’Ideologia Californiana (in sintesi: come la controcultura e la Summer of Love sono diventati i motori della nuova evoluzione del capitalismo) pur con uno sguardo critico e una riflessione sulla tendenze monopolistiche dei nuovi giganti del digitale. Roger McNamee in Facebook ci ha creduto, ci ha investito e ci tiene a farci sapere quanto abbia fatto per impedire che la piattaforma prendesse la deriva degli ultimi anni cercando di consigliare Mark Zuckerberg in varie fasi della sua carriera.
McNamee racconta dalla stanza dei bottoni come le dinamiche politiche ed economiche si intreccino per discutere di un problema fondamentale del nostro tempo: ovvero come si è costruito il nuovo capitalismo e il nuovo monopolio che gira attorno ai dati, alla vendita dell’attenzione e della nostra quotidianità, il nostro trasformaci in prodotto e fascio di numeri da interpretare e vendere
Ed è in effetti grazie a questa posizione privilegiata che McNamee offre un racconto interessante di una vicenda che influenza quotidianamente miliardi di persone, cerca di prevederne il comportamento, di svilupparne le pratiche future e influisce sugli orientamenti di voto e la formazione del pensiero complesso. McNamee racconta dalla stanza dei bottoni come le dinamiche politiche ed economiche si intreccino per discutere di un problema fondamentale del nostro tempo. Forse il problema fondamentale del nostro tempo dopo quello della disuguaglianza economica (tema che non c’entra ma c’entra anche con l’argomento di questo libro): ovvero come si è costruito il nuovo capitalismo e il nuovo monopolio che gira attorno ai dati, alla vendita dell’attenzione e della nostra quotidianità, il nostro trasformaci in prodotto e fascio di numeri da interpretare e vendere. E lo fa mettendo insieme testimonianze di prima mano, dialoghi con gente che vive la faccenda dall’interno (il suo sparring partner, ad esempio, è Tristan Harris, che ha lavorato per anni alla costruzione di un modello ‘etico’ per Google e poi ha deciso di rivelare i segreti della scatola nera di internet), e fa vedere anche come sia stato possibile cercare di invertire la rotta cercando di influenzare i processi decisionale e chiedendo un’operatività diversa che Facebook, a quanto pare, semplicemente non vede come prioritaria.
La lettura di Zucked infine conferma due cose. La prima, indirettamente, dà ragione a quanto scrivevamo qualche mese fa su queste pagine a proposti di F8: la conferenza come tentativo mal fatto di girare la frittata con le public relations; la seconda, è che la soluzione al problema dei social network e delle piattaforme come monopolisti economici in grado di influenzare e manomettere l’andamento della democrazia liberale deve essere di natura politica e redistributiva, con una regolamentazione adatta ai tempi, una legislazione sulla privacy adatta al terzo millennio e una maggiore trasparenza dei flussi economici e finanziari e le loro capacità di influenzare le bolle e i nostri bias di conferma. Pensare di tornare indietro, lo abbiamo detto più volte, è inutile, ma correggere la rotta è ancora possibile.