Chiusa l’agenda 2019 con il suo unico impegno inderogabile – scrivere ed approvare la legge di bilancio – il governo si trova davanti 365 pagine bianche, in apparenza senza alcuna idea su come riempirle al di là dela solita routine emergenziale dettata dalle scadenze elettorali e dalle crisi industriali.
Sappiamo che nel 2020 si voterà in Emilia Romagna e in altre tre Regioni. Sappiamo che arriveranno al pettine i nodi dell’Ilva e di Alitalia. Sappiamo che si dovrà decidere sull’inchiesta a carico di Matteo Salvini, e poi affrontare il groviglio determinato da due diverse istanze referendarie, sul numero dei parlamentari e sulla legge elettorale. Ma nulla di tutto ciò è collegato a scelte della maggioranza. Sono tutti eventi determinati dall’ordinaria amministrazione, da iniziative della magistratura, da scelte di singoli gruppi politici e dalla vasta serie di accidenti che da tempo si abbattono sul nostro sistema economico.
Governare l’Italia è già difficile di suo, farlo senza un progetto forte, un’idea-bandiera oltre la battaglia contro il sovranismo, rischia divrivelarsi esiziale sia per il Pd sia per il M5S. Il precedente governo si alimentò per mesi con la spumeggiante agenda del Reddito di cittadinanza e Quota 100, associata al giro di vite contro l’immigrazione, le Ong, il sistema dell’accoglienza. Oltre ogni giudizio di merito, era senz’altro un programma. Così come ci fu un’agenda assai densa nella stagione precedente, pure quella dominata da alleanze “innaturali” (il patto del Nazareno prima, l’accordo con gli scissionisti di Angelino Alfano poi) ma capace di produrre una sua “linea”, dagli 80 euro al Jobs Act, dalla sfortunata avventura della riforma costituzionale fino agli interventi del governo Gentiloni in materia di periferie, Sud, pensioni.
E adesso? Sappiamo tutti che il Conte Secondo non è nato da un progetto politico ma dall’inaspettata crisi del Papeete e dall’impossibilità di indire nuove elezioni senza mettere a rischio il Paese: il voto avrebbe comportato il ricorso all’esercizio provvisorio ed esposto l’Italia a manovre speculative che non poteva permettersi. Ora che il compito è stato eseguito, l’agenda in bianco del 2020 andrebbe riempita con qualcosa di più della tregua politica che probabilmente uscirà dal vertice di maggioranza di gennaio. L’espressione “colpo d’ala” è abusata ma non ne viene in mente una migliore.
La paura del voto è senz’altro un collante forte, così come la lauta partita delle 400 nomine pubbliche in scadenza, ma al posto dei partner di governo non ci fideremmo più di tanto di quel tipo di adesivo. Forse sarà sufficiente a tenere in piedi per un po’ la coalizione ma di certo non basterà per risollevare la reputazione dei partiti che la compongono. Stare nella stanza dei bottoni senza sapere come usarli è un peccato che gli elettori non perdoneranno né al M5S né al Pd, non in questo momento di incertezza, non con un’opposizione così forte e capace di inserirsi nelle contraddizioni degli avversari. I governicchi andavano bene nella Prima Repubblica, quando la regola del Fattore K – l’impossibilità strategica di un’alternanza coi comunisti a Palazzo Chigi – tutelava anche le maggioranze più scalcinate dal rischio di essere scalzate e seppellite nelle urne.
Oggi non più. Persino l’ostilità del Deep State europeo verso un possibile esecutivo sovranista non costituisce una garanzia assoluta: chi avrebbe pensato, tre anni fa, che un matto come Nigel Farage mettesse in moto la valanga che ha portato la Gran Bretagna alla Brexit, inutilmente contrastata dai poteri continentali?
Riempire quell’agenda, dunque. Riempirla con qualcosa che parli al Paese, che indichi una direzione, un’idea di Italia oltre l’instant-politic del quotidiano duello parlamentare. L’alternativa è soggiacere all’agenda degli altri, che è molto semplice e squadernata già da tempo: mandare sotto il governo alla prima occasione, imporre il voto, vincere con un plebiscito che faccia impallidire ogni precedente choc elettorale della Repubblica.