Ci sono due buone notizie per le donne italiane, ma forse non tanto buone come gli Evviva della politica vorrebbero farci credere. La prima è senz’altro l’elezione alla presidenza della Corte Costituzionale di Marta Cartabia: è la prima volta che succede, c’è un nuovo tetto di cristallo infranto e le congratulazioni sono davvero sincere perché la Consulta è un organo importantissimo e troppo spesso in passato ha pronunciato sentenze-choc proprio in materia di donne e di violenza sulle donne. E tuttavia si osserverà che eleggere un uomo alla Presidenza stavolta era davvero impossibile: quell’incarico, per prassi, si assegna al componente della Corte più vicino alla fine del mandato e la dottoressa Cartabia era appunto la prima nella classifica degli “uscenti” (se ne andrà fra nove mesi). L’intesa raggiunta sul suo nome non è quindi né inaspettata né qualificabile come una svolta in tema di parità del nostro massimo organo giurisdizionale: anche volendo non si sarebbe potuto fare altro. Peraltro, ben quattro delle cinque donne promosse alla Consulta nella storia italiana ci sono arrivate per indicazione della Presidenza della Repubblica: il Parlamento ha sempre indicato uomini, con la sola eccezione di Silvana Sciarra, eletta nel 2014 dopo mesi di paralisi e convocazioni a vuoto che avevano bruciato mezza dozzina di candidati maschi.
L’intesa raggiunta sul nome di Cartabia non è né inaspettata né qualificabile come una svolta in tema di parità del nostro massimo organo giurisdizionale
In tanti hanno utilizzato la notizia dell’elezione alla guida della Corte Costituzionale per controbilanciare i mugugni sull’endemico maschilismo della vita pubblica italiana collegati alla notizia dell’incarico a premier assegnato dai progressisti finlandesi alla giovane Sanna Marin. Sottotesto: “Anche noi ci muoviamo”, “Anche da noi le donne fanno passi avanti”. Farebbe piacere condividere fino in fondo questo senso di avanzamento e progresso, ma la verità è che quando è la politica a decidere – e non gli automatismi dell’anzianità, la prassi, o una specifica norma sulle quote – la nomina di una donna a posti di potere è proprio l’ultima cosa che viene in mente al Sistema Italia.
Di recente Cassa Depositi e Prestiti ha rinnovato i vertici di nove delle Società che controlla: 18 poltrone in totale, tutti uomini, zero donne. Ci sono state proteste delle dirigenti del Pd e molte contestazioni social anche da parte di figure autorevoli, ma sono rimaste lì, senza risposta. Presto si dovrà decidere su un numero assai più vasto di poltrone di Stato, si parla di 400 incarichi a capo di enti e authority: si seguirà lo stesso copione? Al momento non risulta alcun impegno per garantire una decente parità e forse sarebbe il momento di pronunciarlo, invece di sventolare come una bandiera l’unico ruolo di serie A toccato nel 2019 a una donna, peraltro – come si è visto – perché fare diversamente non sarebbe stato ammissibile.
All’Italia serve ancora moltissima benzina per percorrere la strada che porta alla Finlandia di Sanna Marin, alla Germania di Angela Merkel, all’Austria di Sophie Wilmès, alla Danimarca di Mette Frederiksen, alla Norvegia di Erna Solberg
La seconda notizia “apparentemente buona” per il mondo femminile è un emendamento alla legge di Bilancio, approvato ieri in Senato, che faciliterà l’assunzione delle atlete donne da parte delle Società sportive, azzerando per tre anni la contribuzione dovuta allo Stato. I titoli trionfanti dicono: “Le atlete diventano professioniste”. Una mezza bufala. Per “diventare professioniste” serve una determinazione del Coni che decida finalmente di equiparare maschi e femmine nel trattamento sportivo perché attualmente tutte le donne che si allenano e gareggiano “per mestiere” – nel calcio, nel basket, nell’atletica leggera, nel volley – sono tesserate come dilettanti, un caso pressoché unico in Europa. La nuova norma agevolerà le assunzioni da parte delle Società, ma il professionismo non c’entra niente e la discriminazione resta. Anzi, diventa più irritante perché è ovvio che tutti la riconoscono, tutti sanno che è indifendibile, ma nessuno riesce a fare di meglio che offrire alle ragazze un contentino.
Insomma, all’Italia serve ancora moltissima benzina per percorrere la strada che porta alla Finlandia di Sanna Marin, alla Germania di Angela Merkel, all’Austria di Sophie Wilmès, alla Danimarca di Mette Frederiksen, alla Norvegia di Erna Solberg, ma anche più banalmente ai molti Paesi europei dove su un campo d’allenamento donne e uomini hanno pari qualifica e la nomina di una signora a un altissimo incarico non abbisogna di fuochi d’artificio perché è nel novero della normalità. Riconoscere la difficoltà del percorso e la sua necessità, anziché irritare le donne sbandierando come rivoluzioni piccoli, timidi passi di avvicinamento, sarebbe un modo più onesto di affrontare questo tema cruciale.