Come drogato, come tossicodipendente, anzi “tossicoindipendente”, così come pronunciavano in piazzetta, nel mio quartiere, molti anni fa, cioè al tempo di “Satisfaction” degli Stones, posso ritenermi tragicamente fallito; si vede proprio che non mi sono mai applicato, non ho fatto nulla per primeggiare tra i “fattoni”, esatto, non mi avrebbero, insomma, mai accettato nei leggendari N.S.C. promossi da “Il Male” (leggi: Nuclei sconvolti clandestini), dunque, queste buone nuove da parte della Cassazione che, benevolente, garantisce che si possa coltivare una propria piantina di marijuana, “erba”, sul proprio balcone, poichè non c’è reato, mi lascia piuttosto soddisfatto, Sebbene non farà brillare più di tanto le mie giornate, non sentirò affatto di ricevere infine chissà quali “buone vibrazioni”, per dirla con parole da fricchettone.
Intanto che racconto così mi torna in mente la prima “canna”, la madre di tutti gli spinelli, anche se allora, dove vivevo, si preferiva dire “spino” o “pino” o “pinello”. Sarà stato il Natale del 1974, e a bordo della A112 di mia madre, con altri due amici, “chiodi storti”, andammo a rintanarci in una viuzza davvero secondaria, nella certezza che nessuno lì ci potesse scovare, potesse mettere gli occhi dentro il nostro nascondiglio, nell’odore di proibito, intanto che l’accendino spappolava la “merce”, su un “tablò”, così come veniva tecnicamente chiamato il piano d’appoggio sul quale raccogliere e mescolare “fumo” e tabacco, quest’ultimo tirato fuori da una “MS”, mentre ripenso quella scena disonesta, così direbbe Stefano Rosso nella sua canzone omonima – «Che bello, due amici una chitarra e lo spinello» – subito mi raggiungono le parole di un sempre compunto Antonio Tajani, lui che più d’altri, in un tweet, si è preso a cuore la vergogna di una sentenza che sembra depenalizzare il piccolo coltivatore diretto di erba: «Si comincia con lo spinello e si arriva all’eroina», così, testualmente, l’ex presidente del Parlamento europeo. Parole che hanno subito suscitato risposte crudelmente sarcastiche da parte di un uomo di scienza, Roberto Burioni: «Si inizia tagliando un filetto e si uccide il cognato». Altri ancora si sono pronunciati sui social, aguzzando le proprie capacità demolitorie.
Intendiamoci, Tajani non è solo nel convincimento che il primo passo verso l’abisso della droga pesante, della “lenta” e della “neve”, non può che mostrare il primo tiro a una misera canna d’erba, anzi, l’uomo, il politico andrebbe perfino ringraziato per non avere accompagnato le sue parole, così nella circostanza data, con un altro classico dello spettrale racconto sull’avviamento alla tossicodipendenza: «… all’inizio gli spacciatori te la regalano, poi, quando vedono che hai preso il vizio te la vendono!».
Ora, che la droga leggera non abbia fatto mai diventare particolarmente intelligente e ancor meno geniale nessuno, così come la pesante, è roba assai nota, perfino in letteratura non vi sono capolavori interessanti e ancor meno imperdibili che siano stati concepiti e scritti “sotto effetto”, forse neppure le migliori pagine dei beat; ricordo ancora che i miei coetanei – my generation, e ho detto tutto – acquistavano un volume di Walter Benjamin intitolato “Sull’hashisch”, inserito nella prestigiosa collana “Einaudi letteratura”, eccitati dal titolo licenzioso, restandone invero delusi, e lo stesso accadeva davanti alla scrittura automatica, ai “cadavre exquis” cari ai Surrealisti. Pensandoci bene, temo che queste chiose ulteriori non interessino più di tanto né il roccioso Tajani né coloro che ritengono la semplice ridotta coltivazione amatoriale un crimine contro la salute e la pubblica morale… Mentre dico così, mi trovo infatti a fare caso ai vasi sul terrazzo, c’è un cactus, c’è un altro cactus, c’è una pianta di gelsomino e infine una “grasta” vuota, così come si dice nel mio dialetto, sì, un vaso libero. Bene, anch’io, temo, lì farò germogliare una piantina personale di erba, come segno di pericolo scampato, pensando a quel giorno in auto, al nostro patema che potesse giungere una volante a sorprenderci mentre ci passavamo il “joint”.
La cultura proibizionista, oltre ad avere “macchiato le carte”, cioè la fedina penale, o addirittura portato in carcere, molti ragazzi come se avessero commesso chissà quale crimine inemendabile, ha il demerito di affermare, come dire, un’ossessione paranoica che non va oltre la soluzione repressiva, sorvegliare e punire. Ancora una volta, mentre così raconto, sento il ridicolo addosso; alla fine, la risposta più semplice a fronte delle parole di Tajani, o di chi per lui, non può che innalzare un grande punto di domanda. Starà dicendo sul serio? O piuttosto: ma crede davvero a quel che dice? O piuttosto le dice perché così parlò la destra, la stessa che negli anni ‘60, sulle pagine dei suoi giornali destinati ai “ben pensanti”, si scagliava contro i “capelloni”, e “drogati”, come in presenza di uno scandalo contro la morale e lo status quo. Dunque, ben venga, accanto a Dio Patria Famiglia, Cristiana, Madre, Giorgia o piuttosto Carmela o Mariella o Peppino o Davide o Peter o chissà cos’altro, questo discorso sembra quasi un espediente per non far sentire solo il persistente riferimento al Santo Rosario.
Davvero una imperdibile occasione anche per Salvini, lui che prontamente ha commentato: «La droga fa male, altro che coltivarsela in casa o comprarla in negozio, e anche le due ragazze morte a Roma ne sono la drammatica conferma. La Lega combatterà lo spaccio e la diffusione della droga sempre e ovunque», il Capitano dice così e a me torna quell’altro giorno in cui la mia carriera di “drogato” ricevette una tragica battuta d’arresto, un terribile colpo, e dire che molti erano colmi di aspettative rispetto al mio possibile talento, certissimi che sarei riuscito a brillare in quell’abisso, immaginandomi nell’aspetto simile a un celebre poster psichedelico nel quale appare una figura seduta, il “cilum” tra le mani, a dare grande boccate, e intanto mi dicevo, se non in matematica, materia che ho sempre trovato non idonea alla mia persona, almeno come aspirante tossico dipendente potrò avere un futuro, no? Non mi aspettavo certamente di finire in carcere, e forse neppure che una mattina, mio padre, il volto terreo, venisse a trovarmi a scuola durante l’orario delle lezioni, gli era stato addirittura detto che il figlio aveva preso una cattiva strada, imprenditoriale, eppure pessima; ecco il bidello che bussa alla porta della classe, con faccia serissima si rivolge all’insegnante quel giorno in cattedra, domanda cortesemente, fermamente «… se può uscire Abbate, che c’è qui fuori suo padre che gli deve parlare…». Lì per lì penso sia accaduto qualcosa di assai grave, mamma deceduta come minimo, finché papà mi si para davanti e, pallido come un cadavere, così domanda: «È vero che hai aperto una fumeria? Così mi hanno detto».
Che menzogna! Ero, sì, inesistente come semplice drogato, figuriamoci come esercente di un cral-paradiso artificiale riservato, roba che nella mente di chi aveva pensato di denunciarmi a mio padre assomigliava a un boudoir per oppiomani, così come nei libri l’hanno raccontato, metti, un Huysmans, un Cocteau, un Rimbaud, no, non avevo aperto nessuna fumeria, anche come imprenditore, oltre che tossicodipendente, dovevo ritenermi un vero fallito, un caso limite, irrecuperabile.
La pianta sul terrazzo, adesso che ho l’incoraggiamento degli ermellini della Cassazione, però non me la toglie più nessuno, la grasta è li che aspetta il primo seme.