Non chiamatelo più Movimento cinque stelle, ma PDC il Partito Di Maio Casaleggio. Questo è il dato centrale della ristrutturazione interna avvenuta nelle scorse ore nel partito di maggioranza relativa. Il vento “movimentista” delle sardine non ha attecchito dalle parti di Luigi Di Maio, nonostante le parole di pubblico apprezzamento, anzi ne ha acuito la deriva personalistica e aziendale.
Nelle scorse ore, una platea assai scarsa, solo un quarto degli aventi diritto, ha votato la prima grande riforma interna del partito di Casaleggio. È stata una risposta a tante emergenze: ai sei milioni di voti persi tra le Politiche e le Europee, al fallimento del governo con Salvini, alle difficoltà del governo e a un certo attivismo del cosiddetto “Partito di Conte”.
La nuova organizzazione prevede una squadra di sei persone accanto al Capo politico, Luigi Di Maio, referenti per le funzioni organizzative tipiche di qualsiasi organizzazione politica: Campagne elettorali, Attivismo, Comunicazione, Enti locali, Coordinamento e Affari interni, Formazione e Personale. Un tempo si sarebbe chiamata “segreteria nazionale” ma la liturgia aziendalista incarnata dall’Erede-Fondatore Davide Casaleggio costringe al neologismo. La soluzione è che i membri della segreteria nazionale si chiameranno “facilitatori organizzativi nazionali”.
Tra i nomi ritroviamo “vecchie glorie” del Movimento come Paola Taverna (attivismo locale) ed ex-ministri come Danilo Toninelli. Per lui, epico e indimenticabile gaffeur, ci sarà la direzione delle campagne elettorali. Alla comunicazione va Emilio Carelli, establishment con un passato di vertice a Mediaset e Sky, mentre l’euro-parlamentare Ignazio Corrao va agli Enti locali amministrati dal M5S. La parte del leone è appannaggio della quota Casaleggio: al timone della “Frattocchie” a cinque stelle ci sarà la senatrice Barbara Floridia (Formazione e Personale), proveniente dai corsi e-learning di Rousseau, mentre il ruolo di coordinatrice degli affari interni del “team del Futuro” (sic!) sarà nelle mani di Enrica Sabatini, socio di Casaleggio nell’associazione di natura commerciale che gestisce ogni aspetto del partito. Piccola postilla: la lista dei “facilitatori” era bloccata, o prendere o lasciare, una specie di porcellum a cinque stelle.
«Se questo è il team del futuro, come lo chiama Di Maio, vuol dire che non abbiamo futuro», dice sconsolato un parlamentare del Movimento che preferisce restare anonimo per evitare ritorsioni.
A che cosa servono nuovi organigrammi e nuove cariche se alla fine decidono sempre Luigi e Davide?
Chissà. Ma soprattutto è la plastica dimostrazione del patto di ferro Casaleggio-Di Maio. Un patto nato nel 2017, con la rifondazione in gran segreto del M5S e il suo asservimento, come un’unità di sistema, all’imprenditore Casaleggio attraverso una sua creatura, Rousseau, in una posizione non scalabile. Di Maio è l’amministratore del sistema, Casaleggio ne è il Presidente a vita.
Con buona pace di chi all’interno del partito e sui media ancora conciona sul ruolo di Grillo riportiamo una frase chiara e netta di Di Maio di qualche giorno fa: «Beppe fa Grillo quando vuole e quando gli pare, ma il simbolo ce l’ho io. Io e Davide». Punto.
«Evitare parole semplici, fare un partito e farlo male», così commentano molte voci critiche all’interno del nascente PDC. «A che cosa servono nuovi organigrammi e nuove cariche se alla fine decidono sempre Luigi e Davide?».
Invidiosi e poltronari, dicono i pasdaran di capi e capetti. Ma è evidente che c’è una frattura profonda, sistemica, tra la leadership e buona parte dei parlamentari. La linea di faglia è tra gli eletti di prima nomina e la vecchia truppa del 2013. A parte poche, pochissime eccezioni, Di Maio ha lasciato ai box tutti i “nuovi”. La blindatura nei confronti dei nuovi eletti ha avuto un preciso suggello, la nomina dei vertici del gruppo parlamentare alla Camera. Dopo mesi di stallo, Davide Crippa, già eletto nel 2013 ed ex-sottosegretario, è diventato capogruppo con l’appoggio degli uomini di Roberto Fico che hanno ottenuto la poltrona di vice, con Riccardo Ricciardi, e l’ufficio di tesoreria.
È lungo questa frattura che da mesi si rincorrono progetti e numeri per la nascita di un gruppo di “appoggio””al Conte-bis che si staccherebbe dal partito di Di Maio e ne mitigherebbe il peso politico.
Ci sono però tante variabili, due su tutte: la prima è il probabile referendum sul taglio dei parlamentari; la seconda è meno politica e più umana perché chi ha davvero voglia, per un semplice capriccio del leader, di perdere il seggio prima di maturare il diritto alla pensione?
In questo combinato disposto va trovata la soluzione del rebus: se staccare la spina o continuare, e soprattutto come. Con questo schema o con uno nuovo che contempli una scissione dal Movimento come quella subita dal Pd verso il centro con il progetto renziano.
Vedremo. Di certo la definitiva consacrazione del Movimento in Partito non finisce qui. Ci sono altre caselle che si vanno riempiendo, nuovi apparati burocratici per dodici aree tematiche che nelle intenzioni dovrebbero fare da cerniera con “il mondo esterno”. Anche qui c’è un facilitatore, coadiuvato da tre eletti: un portavoce nazionale, uno regionale e uno comunale. Ogni area avrà uno staff tecnico composto da esperti. A scorrere la lista dei “facilitatori” salta agli occhi una particolarità, molti, quasi tutti provengono da due regioni, Campania e Sicilia, la ridotta dei voti dei Cinque stelle. Tra qualche settimana poi sarà il turno dei facilitatori regionali. Anche qui giochi di correnti, pacchetti di voti, digitali s’intende, patti e lacerazioni. Come un partito qualsiasi, solo più “facile”. Perché a decidere sono soltanto in due. È il PDC.