JeffersonMentire per vincere, una storia americana (ben prima di Trump)

L’utilizzo di fake news per la propaganda elettorale era molto diffuso già ai tempi di Abraham Lincoln, il presidente più insultato dalla stampa. Una storia che dice molto di quanto il candidato di maggiore successo spesso sia non tanto quello più convincente, ma quello con l’elettorato più fedele

Foto da Facebook

In questa immagine possiamo vedere Thomas Jefferson intento a sacrificare la Costituzione americana sull’altare del “dispotismo gallico”. Si nota anche che nella mano destra del futuro presidente c’è una lettera indirizzata a “Mazzei”: Che altri non era che Filippo Mazzei, medico e mercante pisano, amico personale di Jefferson e agente della Virginia durante gli anni rivoluzionari. A Mazzei Jefferson aveva scritto una lettera nella quale definiva il governo di George Washington «Anglicano e monarchico». Questa era la prova per i sostenitori di Washington, i federalisti, che Jefferson era l’alfiere del terrore giacobino negli Stati Uniti.

Un giornale newyorchese così descriveva i democratici repubblicani di Jefferson (e vale la pena di leggerselo in lingua originale): «Citizens choose your sides. You who are for French notions of government; for the tempestuous sea of anarchy and misrule; for arming the poor against the rich; for fraternizing with the foes of God and man; go to the left and support the leaders, or the dupes, of the anti-federal junto». Ma i propagandisti jeffersoniani, guidati dal giornalista scandalistico John Beckley (qui un profilo su quanto ha contribuito alle origini delle moderne campagne elettorali), controbattevano dipingendo John Adams come un segreto fan di Re Giorgio III e favorevole alla restaurazione del dominio britannico.

La differenza con l’oggi è che i diretti interessati, John Adams e Thomas Jefferson, non partecipavano a questa gazzarra. Rimanevano ben lontani dal trambusto della campagna. Il loro status sociale lo permetteva. Si atteggiavano a sdegnati e riluttanti statisti che venivano chiamati, loro malgrado, a occuparsi della cosa pubblica. O almeno così si volevano atteggiare. Ma in realtà i toni che utilizzavano in privato nella loro corrispondenza testimoniano che erano proprio i leader a guidare questo sforzo. E i veicoli del loro potere nascosto al pubblico era veicolato dalla stampa. Che all’epoca non pretendeva di essere imparziale, anzi. Con un paese agricolo e scarsamente industrializzato le avventure editoriali non dovevano essere imprese profittevoli, ma rappresentavano la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. E traevano il loro sostegno dal finanziamento delle organizzazioni politiche (qui un volume spiega come funzionava questo sistema di do ut des), un quid p. Era quello il modo principale di guadagnare.

Un’altra vittima illustre di questo andazzo è stato un presidente repubblicano, il più insultato dalla stampa. No, il record non è di quello attuale, ma di Abraham Lincoln. E in quell’epoca comincia a nascere la richiesta di una stampa un pochino più indipendente, per capire come stesse andando davvero la guerra. Il presidente, eletto per le capacità oratorie più che per l’esperienza politica, viene bersagliato non solo dalla Confederazione, ma anche dall’ala dei democratici favorevoli all’appeasement del Sud: facciamo solo un esempio con la copertina di un pamphlet:

In questo pamphlet, Lincoln fa un patto col Diavolo per ottenere la vittoria della guerra e farsi nominare come primo re nero d’America, Africanus I. Ma è con l’avvento della stampa commerciale che arrivano le fake news propriamente dette: e non proprio in politica, ma in guerra. Prima con la guerra ispano-americana i giornali di proprietà di William Randolph Hearst incolparono la Spagna dell’esplosione della Corazzata Maine nel porto de L’Avana avvenuta il 15 febbraio 1898. Secondo il New York Journal era stata una macchina infernale spagnola. Anzi no, forse un siluro. Proprio la retrograda e papista Spagna aveva ucciso 258 marinai americani. La scusa perfetta per attuare la dottrina Monroe e mettere sotto protezione Cuba, Porto Rico e le Filippine, come indicato già velatamente nella piattaforma repubblicana nel 1892.

L’opinione pubblica americana, almeno quella urbana, venne guidata ad approvare l’operazione imperialista. Nel 1917 l’esperimento venne ripetuto su vasta scala e per mano governativa: l’amministrazione di Woodrow Wilson costituì un organizzazione propagandistica per “indirizzare” l’elettorato americano verso l’intervento nella Grande Guerra: stiamo parlando del Committee of Public Information, un agenzia governativa guidata dal giornalista George Creel. Il motto dell’ente era «Address, not suppress», come a rimarcare l’idea di essere diversi da una semplice agenzia di censura della stampa, peraltro impossibile per il Primo Emendamento della Costituzione Americana.

A un uso innovativo dei mezzi di comunicazione come radio, cinema e manifesti pubblicitari si abbinava una distorsione di alcune notizie, che venivano riproposte in modo parziale e con modifiche dolose, come quando annunciò all’inizio del 1918 l’invio della prima squadra di aerei con delle foto false, che riproducevano in serie l’unico aereo allora prodotto e che era ancora in fase di sperimentazione. Durato fino al 1919, il Comitato si trasformò lentamente in un organismo di propaganda puro e semplice che non “indirizzava” più la stampa, ma la portava dove voleva il Presidente, ovverossia al sostegno acritico e incondizionato dell’intervento e facendo lobby sui membri del Congresso per ottenere sempre più fondi e in un certo senso sfuggendo al controllo dei propri creatori. Non solo: nel 1917 venne approvato l’Espionage Act, una legge che, teoricamente, serviva a limitare le fake news legate all’intervento americano in guerra. In pratica, diede un potere quasi illmitato sia al Procuratore generale che al Direttore generale delle Poste. Il primo poteva indagare e nel caso colpire dissidenti politici (nello scorso numero abbiamo visto il caso di Eugene Debs) mentre il secondo poteva proibire la diffusione via posta di riviste “incriminate”.

Ma è negli anni ’30 in California che l’uso moderno delle notizie false raggiunge il suo apice. Il Golden State era il terreno perfetto per questo tipo di sperimentazione: mancante di strutture partitiche solide e con un grado di democrazia diretta unico nel Paese, derivante dagli anni compresi tra il 1898 e il 1918, quando sotto la guida di governatori come il repubblicano progressista Hiram Johnson lo stato diventò l’esempio perfetto di disintermediazione tra cittadini e politica (un saggio pubblicato nel 2003 lo spiega molto bene), per evitare che i grandi trust ferroviari esercitassero il potere come avevano fatto finora, manovrando deboli figure come deputati, senatori o governatori.

Ma questi interessi speciali trovarono comunque il modo di far sentire la propria voce attraverso questi strumenti. E questa novità storica si concretizzò nel 1933, quando venne fondata un’agenzia di comunicazione a San Francisco, la Whitaker & Baxter (la storia di questa agenzia viene raccontata qui). Un team composto da Clem Whitaker, ex giornalista politico locale, e da Leone Baxter, già addetta stampa della Camera di Commercio nella cittadina di Redding. Fu la prima agenzia di comunicazione a occuparsi soltanto di campagne politiche, tralasciando la pubblicità tradizionale, sfruttando le numerose occasioni concesse dai referendum e dalle proposte dirette. Come committenti, quelle forze economiche che si credevano disarcionate: le grandi industrie, come quella ferroviaria o il conglomerato dell’energia Pacific Gas & Electric, che tentavano di riaffermare il proprio predominio convincendo gli elettori durante le campagne referendarie. Con volantini, depliant e spot radiofonici e televisivi. E sfruttando in modo massiccio la distorsione delle notizie. Oggi le chiameremmo fake news.

Due le vittime eccellenti: lo scrittore socialista Upton Sinclair, candidato governatore per i democratici nel 1934, dipinto attraverso l’uso tendenzioso di citazioni tratte dai suoi romanzi come un nemico della stabilità matrimoniale. Ma anche come un complice con “l’invasione” dei disoccupati provenienti da tutta l’America per sfruttare i nuovi benefit previsti dal suo piano “End poverty in California”. Qui uno dei video di propaganda poltiica che i californiani vedevano al cinema mascherato da notizia. Sinclair uscì demolito dalla prova elettorale. Anni dopo, nemmeno un presidente degli Stati Uniti potè resistere al loro potere mediatico. Parliamo di Harry Truman, che nel 1948 finì nel mirino della Whitaker & Baxter per la sua proposta di riforma della sanità sul modello di quanto fatto dai laburisti in Gran Bretagna. Una sanità totalmente pubblica e gratuita. Ma per l’American Medical Association, timorosa di perdere lucrosi contratti con le compagnie assicurative, questa divenne la “medicina socialista”. Venne inventata di sana pianta una frase di Lenin: «La sanità socializzata è l’architrave del sistema socialista». In tutte le sale d’aspetto dei medici americani i pazienti potevano vedere questo poster:

Un quadro di epoca vittoriana, che rappresenta un medico corso al capezzale di una piccola paziente malata, diventa il grimaldello per convincere i pazienti che il governo potrebbe cancellare il loro medico di fiducia per sostituirlo con un burocrate qualsiasi, da raggiungere facendo lunghe liste d’attesa. Truman si dovette arrendere, molti democratici favorevoli a questa riforma non sopravvissero alle elezioni di midterm del 1950. Truman rinunciò al progetto. Per la prima volta le fake news avevano vinto da sole una campagna elettorale.

Per tornare all’oggi, sta andando in onda su Sky Atlantic una serie tv, The Loudest Voice, dedicata a Fox News e al suo fondatore Roger Ailes, autore della frase: «Il pubblico non vuole essere informato, vuole sentirsi informato». L’uso disinvolto della verità “alternativa” è stato anche analizzato da un recente articolo pubblicato su Wired. Siamo andati molto oltre rispetto alla California dei tardi anni ’40. La “fabbrica delle bugie” adesso è un pericolo per la sicurezza nazionale. E per la tenuta democratica. E nonostante questo, sicuramente la tradizione americana andrà avanti, potenziata come mai prima. E il rischio è che davvero non vinca più il più convincente tra i due candidati ma semplicemente chi ha l’elettorato più fedele e disposto a credere alla propria visione della realtà.

(Tratto dalla newsletter Jefferson-Lettere sull’America. Per iscrivervi cliccate qui)

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