Le polemiche economiche in corso nascondono la contrapposizione politica fra il popolo dei cittadini e il popolo dei creditori. Il popolo dei cittadini (Staatvolk) è nazionale, quello dei creditori (Marktvolk) è internazionale. I creditori “votano” ogni giorno attraverso i mercati definendo il rischio del debito pubblico, mentre i cittadini votano ogni cinque anni definendo le forze al governo. Questi sono interessati ai servizi dello Stato Sociale e non danno molto peso al meccanismo del loro finanziamento, gli altri sono interessati alla credibilità degli impegni finanziari dello Stato e non danno molto peso alla legittimità politica necessaria per perseguire i propri intendimenti.
Lo Staatvolk non ha degli interessi finanziari – sono in maggioranza “poveri” e quindi, al contrario dei “ricchi”, posseggono solo gli immobili i cui prezzi non si formano nel continuo e quindi possono essere percepiti come stabili, o avulsi dagli andamenti dell’economia. Al contempo non posseggono attività finanziarie i cui prezzi si formano nel continuo e che sono considerati instabili, perché risentono degli andamenti dell’economia.
I componenti dello Staatvolk sono quindi meno informati, perché la loro ricchezza è percepita come stabile e quindi non hanno incentivi per saperne di più. Si spiega così la crescita o la tenuta nei sondaggi dei populisti, anche in presenza di perdite in campo finanziario dovute alle politiche messe in atto proprio da loro. Un esempio è l’indifferenza dell’elettorato populista al tempi del Conte I verso i problemi economici che stavano sorgendo e che sono poi sorti.
Questa contrapposizione esiste da tempo, ma ultimamente ha preso una nuova forma. A quella classica della “ribellione delle masse” va aggiunto l’aggettivo “virtuali”. Una volta il cosiddetto uomo della strada riconosceva la competenza di chi ne sapeva di più – che lo facesse per convinzione, oppure per timore dei signori, e/o di Dio non lo possiamo sapere. Oggi, invece, il cosiddetto “uomo social”, che ha sostituito il succitato uomo della strada, esprime la sua opinione su ogni argomento senza alcun timore reverenziale. L’uomo social non solo dice la sua su tutto, ma si rinchiude in una fortezza con i suoi simili, aiutato dagli algoritmi, che sono progettati proprio per mettere insieme chi esprime una sensibilità e degli interessi omogenei. Da qui l’uomo social che si aggrega con chi ha interessi politici simili, o con chi condivide l’amore per i gattini.
Fino a non molto tempo fa, cioè dal Secondo Dopoguerra in poi, non esisteva un astio profondo come quello di oggi verso le classi dirigenti, che, secondo i critici, si giustifica per l’uso fatto a loro esclusivo interesse della politica economica. Secondo questo punto di vista, la politica monetaria ha spinto al rialzo le attività finanziarie che, in massima parte, sono detenute dai benestanti, mentre le politiche fiscali dette “austere” hanno congelato i servizi offerti alla popolazione meno abbiente. In breve, secondo questa lettura, la politica economica ha contribuito a redistribuire a sfavore dei meno abbienti il reddito, la ricchezza, ed anche, e forse questa è la cosa più importante, le opportunità.
Insomma, quel che raccontano i populisti, e quel che sembra essere all’origine – il senso di ingiustizia e quindi il risentimento – del loro successo. Una crescita robusta e percepita come equa è dunque necessaria. Già, ma come ottenerla? Abbiamo in Italia due opzioni opposte. Da un lato l’idea (maggioritaria) di una politica economica trainata dalla domanda, dall’alto quella (minoritaria) di una politica economica trainata dall’offerta. Affronteremo poi il nodo della distribuzione dei frutti della crescita.
Una politica centrata sulla domanda – ultimamente i trasferimenti per le pensioni (quota 100) e per il reddito di cittadinanza – non sembra un motore adatto. Una politica centrata sulle infrastrutture – una politica economica trainata anch’essa dalla domanda – è meglio, ma non spinge verso una crescita robusta.
Perché mai? La risposta richiede una digressione sui moltiplicatori. Il moltiplicatore “moltiplica” per davvero il reddito se è maggiore di uno, ossia se lo stato spende un euro in più e il PIL cresce più dell’euro speso. Il moltiplicatore moltiplica molto se l’economia è in depressione, perché la spesa pubblica stabilizza la domanda, mentre riduce l’apprensione degli investitori e dei consumatori, ossia un euro “produce” più di un euro. In condizioni normali, invece, il moltiplicatore moltiplica poco. Oggi non siamo in depressione, ma in stagnazione.
Questa dell’efficacia dei moltiplicatori che è massima in depressione, ma non in condizioni normali, è la prima argomentazione scettica sul loro ruolo salvifico. Va ricordato che il moltiplicatore degli investimenti ha una sua valenza al di fuori della depressione. Se il nuovo ponte fa sì che nulla mi cada in testa quando passo di lì, a me sta benissimo anche se la spesa per costruirlo non moltiplica il reddito, o se lo moltiplica poco.
La seconda argomentazione scettica è questa: i moltiplicatori sono tanto maggiori quanto più solida è la posizione fiscale del governo. Ossia, un governo che ha un gran debito pubblico avrà un moltiplicatore meno pimpante di uno che ne ha uno ridotto. Nel caso italiano, se si spende in deficit e il PIL non cresce abbastanza, il debito pubblico crescerà più del PIL. Nel caso di un aumento dei tassi il debito diventerà più oneroso, e sarà tanto più oneroso tanto maggiore è il debito. Per fronteggiare un elevato onere del debito si dovranno subito alzare le imposte, così deprimendo l’economia.
Ed ecco l’argomentazione a favore della politica dell’offerta. In Italia, su 60 milioni di abitanti solo 23 lavorano. I disoccupati non sono poi molti – 3 milioni, mentre molti sono gli inattivi in età di lavoro – 13 milioni. Gli inattivi in età non lavorativa – neonati, giovanissimi, e anziani, sono 21 milioni. Abbiamo quindi: 3+13+21 = 37 milioni di persone che non lavorano a fronte di 23 che lavorano. Quelli che lavorano poi sono quasi tutti occupati nelle imprese con al massimo dieci dipendenti. Imprese che non hanno economie di scala significative. I salari però possono salire stabilmente – e quindi aiutare il finanziamento sia della spesa pubblica sia di quella pensionistica solo se aumenta la scala delle imprese e quindi il valore aggiunto che si può distribuire.
Le imprese italiane di piccola dimensione hanno una produttività inferiore a quelle delle imprese tedesche e francesi della stessa classe, mentre quelle di dimensione maggiore hanno una produttività eguale o maggiore. Dunque il punto non è l’”italianità incapace di fare industria” o “l”euro che ci ha rovinati”.
La crescita del PIL italiano si sta arrestando a tempo. Quando cresce, cresce di qualche decimale, e, quando la crescita è rivista, lo è sempre per qualche decimale. La crescita nulla e una dinamica demografica negativa – un numero crescente di anziani che ha costi crescenti come pensioni e come spesa sanitaria – mettono il Paese in difficoltà, soprattutto se il debito pubblico di partenza è molto elevato.
Il maggior responsabile della mancanza della crescita è lo “sciopero” degli investimenti. È una conseguenza della crisi, che ha alzato il livello dell’incertezza, ma anche dell’inefficienza del Paese. L’inefficienza è misurata come Produttività Totale dei Fattori. Se all’aumentare della quantità di lavoro e di capitale, il prodotto per occupato non cresce più dei fattori conferiti, si deduce che non si è avuto un miglioramento nell’organizzazione dell’economia. Il quale miglioramento dipende, alla fine, dalle infrastrutture, in frenata da anni, dal progresso tecnico, che, misurato come spese in Ricerca e Sviluppo, vede l’Italia indietro rispetto a quasi tutti i Paesi sviluppati, e dal capitale umano, dove si registra un scolarizzazione modesta.
Infrastrutture, Ricerca e Sviluppo, e Capitale Umano sono quindi da rilanciare per tornare su un sentiero di sviluppo. Cui si aggiungono, e non per minor importanza, gli incentivi per aumentare la scala delle imprese.
Vi sono due fattori che potrebbero aiutare a riformare il Paese, se si riuscisse a intraprendere il percorso: l’euro e le esportazioni.
La decisione di abbandonare la Lira non ha penalizzato l’Italia. Sul versante del costo del debito pubblico e con gli effetti a cascata dei costi del credito e nei mutui, non si vede la penalizzazione. Quando nel 1996 è presa la decisione di abbracciare l’Euro il tasso medio all’emissione (la media del tasso dai BOT a scadenza più breve fino a quello del BT a scadenza più lunga) era dell’8,5%. Nel marzo del 2018 (la data è scelta a cavallo delle ultime elezioni politiche) il tasso medio all’emissione è stato inferiore all’1%. Neppure durante la crisi del 2011 e 2012 il tasso medio all’emissione (da non confondere con i picchi dello spread sui BTP decennali) è schizzato troppo in alto, perché si era assestato intorno al 3,5%. Per confronto ai tempi della crisi precedente, quella del 1992, il tasso medio all’emissione era intorno al 14%. Perciò l’Euro ha contribuito al controllo del debito pubblico perché ha schiacciato il tasso di interesse richiesto. Nei prossimi anni la politica monetaria continuerà ad essere molto lasca e quindi si avrà un contributo al contenimento del debito.
Anche sul versante della competitività con l’estero non si vede la penalizzazione. Le esportazioni sono cresciute dal fondo della crisi del 2009 del 45%, a fronte di un PIL cresciuto nello stesso periodo del 2% scarso. Questa considerevole crescita delle esportazioni è stata anche di qualità – che si misura con il potere di acquisto delle esportazioni, cioè quanto si importa per unità di esportazioni: se esporto solo ortofrutta, non potrò che importare una quantità limitata di apparecchi medicali.
Ebbene, il potere di acquisto delle esportazioni italiane è cresciuto dal minimo del 2009 del 25%. La crescita delle esportazioni italiane sia in quantità sia in qualità mostra che il sistema industriale esiste. Non solo, ma che è una alternativa concreta all’idea che l’industria potrebbe essere sostituita da un’economia “verde” centrata sull’agricoltura e sui servizi turistici.
La scelta politica che si presenta per i prossimi anni è davvero drastica. Provo ad argomentare. Il punto di vista maggioritario su quel che sta accadendo nei Paesi democratici di capitalismo avanzato dipinge un quadro fosco. Si ha uno Stato che si è indebolito e per la diffusione delle idee neo-liberali e per la globalizzazione. Questi due accadimenti sono all’origine di un mercato del lavoro molto meno protetto nei Paesi emersi e della concorrenza della manodopera poco pagata di quelli emergenti. Come conseguenza è cresciuta la disuguaglianza, che non è stata contrastata da una maggior redistribuzione. Dalla premessa emerge il mondo delle oligarchie cosmopolite annegate nel mare delle diseguaglianze che vivono nelle metropoli circondate da una manodopera emigrata che, svolgendo i lavori umili, ne addolcisce la vita. Da qui la cosiddetta rivolta contro le élite, alias il Populismo. Da qui le accuse alla Sinistra di aver tradito i meno abbienti.
Il punto di vista minoritario su quel che sta accadendo nei Paesi democratici di capitalismo avanzato dipinge un quadro diverso. Vi è stata una spinta dalle idee neo-liberali e della globalizzazione, ma questi due accadimenti hanno contribuito all’emergere di un nuovo fenomeno: cioè l’economia della conoscenza, dove abbiamo un numero crescente di cittadini ad alta istruzione, economie molto aperte all’estero con un alto tasso di finanza, nonché liberalizzate in misura crescente.
Al centro del nuovo sistema, come classe sociale di maggior peso e come referente politico, non ci sono, come pensano in tanti, gli onnipotenti plutocrati, ma le persone ad alta istruzione. Questa classe può essere immaginata come una riedizione occidentale dei bramini. Per tornare alle polemiche, la sinistra nei Paesi democratici di capitalismo avanzato è la parte politica dei bramini, non più dei meno abbienti.
Il punto di vista maggioritario – per ragioni di “equità” – vuole tornare alla distribuzione dell’economia fordista, quindi vuole un’eguaglianza spinta dall’equità, mentre quello minoritario non è interessato ad una maggiore eguaglianza per ragioni di equità nella distribuzione dei redditi. Il secondo punto di vista potrebbe (dovrebbe) giungere ad una conclusione a favore di una maggiore redistribuzione dei redditi, quindi di maggiore eguaglianza, ma non per ragioni di “equità”, bensì di opportunità.
La mobilità lega gli interessi delle diverse classi di reddito. Quelli all’estremità inferiore possono pensare a una ascesa sociale propria e dei propri figli, mentre quelli all’estremità superiore possono pensare a una discesa sociale propria e dei propri figli. Questa duplice logica della mobilità sociale crea una comunanza di interessi, dove si possono seguire anche delle linee di classe, ma senza l’intensità che si avrebbe se tutti fossero fermi alla condizione di partenza.
Ora, immaginiamo che la mobilità sociale si blocchi. Colui che, ancora appartenente alla classe media ma con poche competenze, si troverà, per come funziona l’economia della conoscenza, nella condizione di scivolare verso il basso. Da un lato cercherà di ottenere un’integrazione del proprio reddito con il trasferimento – attraverso le imposte – di una parte del reddito dai ceti che hanno le competenze e quindi il reddito, ai quali, peraltro, non possono sperare di unirsi. Dall’altro non vedono una comunanza di interessi con quelli che stanno in fondo, come gli immigrati. Se la mobilità verso l’alto è vista come impossibile, e gli immigrati sono visti come dei concorrenti indesiderati, ecco che è si alimentata una mentalità da giochi a somma zero.
Nel Bel Paese si hanno due progetti, quello della redistribuzione per equità e quello per opportunità. Il primo non promuove lo sviluppo, ma distribuisce un reddito stagnante, il secondo vuole lo sviluppo anche per redistribuire il reddito.