Da Nanni Moretti a Chiara Ferragni, quanto è cambiato il cinema degli ultimi 10 anni

I film italiani degli anni Dieci, dalla Grande Bellezza di Paolo Sorrentino passando per le produzioni di Checco Zalone e le invenzioni di Jeeg Robot sono approdate al termine della gestazione. Finita la crisi (e il suo racconto) ci rimane solo il mito dell’influencer e il primato dell’esteriorità

Numerose conferme, qualche scoperta, alcune sperimentazioni. Dal 2010 a oggi sono ormai passati dieci anni di cinema italiano. Alti e bassi che, tolti i capolavori e gli orrori, formano una media non proprio superlativa. A parte qualche titolo di sucesso, non si è vista nessuna vague all’orizzone, nessun movimento, nessuna scuola. C’è stato di tutto, certo – il film inventivo, quello di protesta, quello che apre nuovi orizzonti – e sgranando la lista delle produzioni italiane degli ultimi anni, solo qualche pellicola torna in mente. Brutto segno, però: era stata dimenticata. Di impatto, in effetti, c’è stato ben poco.

Una manciata di titoli, forse, che va a ripescare antiche impressioni: le Mine Vaganti di Ozpetek, per esempio, pluripremiata commedia ambientata in Puglia dove si affronta il tema dell’omosessualità, è quello che di meglio rimane del 2010. Merito della regia, degli attori, della storia stessa: tutte cose che ne hanno garantito la sopravvivenza da un’epoca che era segnata – a un anno dal terremoto in Abruzzo e dal vertice internazionale all’Aquila, dall’antiberlusconismo galoppante. Erano gli anni di Draquila, film inchiesta di Sabina Guzzanti (ormai dimenticato) proprio sulla gestione del post-terremoto, che si allineava nel filone, a metà tra denuncia e militanza politica, dei film contro Berlusconi (anche questo finito in solaio). Il primo esempio notevole, del resto, era stato nel decennio precedente Il Caimano di Nanni Moretti.

E proprio lui , il regista romano, figura tra i protagonisti del decennio: nel 2011 la pellicola più importante è, secondo ogni logica, il suo Habemus Papam. È originale: tutti, anche chi non lo ha visto, ne conosce per sommi capi la storia. Un Papa appena eletto che, preso dal panico per il suo nuovo incarico, si trova costretto a chiedere aiuto a uno psicologo (interpretato da Nanni Moretti stesso), ma alla fine (spoiler tardivo) rinuncerà. Ed è anche un film profetico – forse il suo merito maggiore – dato che di lì a due anni qualcosa di simile (ma in realtà molto diverso) accadrà davvero.

Qualche domanda rimane: perché mai, tutto sommato, qualcuno desidererebbe il potere «di fare fallire le feste?».

Saltando il 2012, annata povera povera, si arriva al cuore del periodo della crisi, da cui discende, con ovvietà, anche “il cinema della crisi”. Il 2013 regala Sacro Gra, documentario delle periferie romane di Gianfranco Rosi, che ridà vita a una tradizione ormai impolverata, quella del reportage sociale, guadagnandosi (primo nella storia) il Leone d’Oro per il miglior film a Venezia. Nel frattempo, in tutt’altra direzione, c’è Sole a catinelle, il film record di incassi di Checco Zalone (terzo in classifica dopo gli americanissimi Avatar e Titanic), dove tra gag e canzoni viene rappresentata una Italia al guado della crisi economica, tra i consueti vizi e le nuove misere realtà. Alcuni (subito contraddetti) hanno parlato di «rinascita della commedia italiana», altri hanno sottolineato come il merito di Zalone sia quello di «non mettersi al di sopra degli altri cafoni», rimanendo «primus inter pares». Una filosofia che, qualche anno più avanti si ritroverà incarnata nel leader di un partito all’epoca in ginocchio e che, proprio grazie a questo trucco, assaggerà una breve esperienza di governo nel 2018.

Certo, 2013 significa, per tutti e soprattutto, La grande bellezza. Il capolavoro premiatissimo, con tanto di Oscar, di Paolo Sorrentino: uno spartiacque, anche solo per lo stile, il titolo (già in sé efficace), per il modo in cui tratta la desolazione intensa di una città, di una generazione, di un’epoca. È un film di sconforto e di rimpianto – e forse in questo coglie il senso di un’era fallita che si sente superata. Contrario a ogni idea di trama, ma favorevolissimo a quella di impressione, è accompagnato da un ritmo di sentenze, solenni e incomprensibili che a distanza di anni, continuano a interrogare lo spettatore. Perché mai, tutto sommato, qualcuno desidererebbe il potere «di fare fallire le feste?».

Da quel momento, qualcosa cambia. Le nuove rielaborazioni, che cadono in epoca renziana, sperimentano qualcosa di insolito: forse con troppa timidezza. È il 2014 di Io sto con la sposa, film (tutto in arabo) più bello se raccontato che visto, ma da non sottovalutare: abbraccia la questione delle questioni, cioè l’immigrazione, in modo nuovo e originale, con un gruppo di migranti che simula un matrimonio per superare le dogane e arrivare fino in Svezia. Chi mai desidererebbe il potere di far fallire un corteo nuziale?

Ma è anche il 2014 de Il giovane favoloso, film di Mario Martone sulla vita di Giacomo Leopardi, il cui senso profondo trova spazio, oltre alla scena (grottesca, si può dire adesso?) del poeta che gioca con la siepe, nella recitazione della Ginestra sul finale. Ed è il 2014 del Capitale umano, manifesto di Paolo Virzì del cinismo grigio delle imprese italiane, che hanno ormai esaurito lo slancio e i soldi. Guarda agli Stati Uniti (e viene candidato, senza vincere, alle selezioni degli Oscar) ma tenta di illustrare un collasso italiano. Il pessimismo, nonostante tutto, è il sentimento prevalente.

E allora che si fa? Raccolgono i cocci nel 2015 due pellicole importanti in modi diversi: Mia madre, di Nanni Moretti, che sintetizza le tensioni della stagione: c’è il set sulla disoccupazione e il licenziamento degli operai, c’è la morte della madre. E c’è, soprattutto, la mancanza di comunicazione tra generazioni: si scoprirà alla fine che quella estranea, saltata, evitata, è proprio quella di Nanni Moretti/Margherita (la protagonista alter ego). A fare da controcanto arriva Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, perché in tutte le situazioni di difficoltà serve sempre un supereroe. Questo è sbrindellato, perdente, perso in piccoli giri di microcriminalità nella periferia di Roma. Alla fine salverà la città da una bomba, scoprirà la responsabilità derivante dai suoi poteri (come l’Uomo Ragno), ma con l’amaro in bocca di chi sa che in Italia certe favole americane non funzionano così bene.

Fuga dalla realtà e pessimismo cosmico. Due facce della stessa medaglia. Oppure impegno civile: ci sono nuove lotte da combattere, quella delle migrazioni (di nuovo) con Fuocoammare, documentario del 2016 ancora di Gianfranco Rosi, che va a Lampedusa, o quelle dei diritti. Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino, fa molto più di tante campagne e legislazioni per sensibilizzare sul tema dell’omosessualità. Perché non sensibilizza, ma lo tratta per quello che è: una forma, tra le tante, di amore. Il film, che si distingue per le sue atmosfere rarefatte, sottili e delicate, chiude tutte le questioni su un tema fin troppo discusso e maltrattato.

Se si guarda all’indietro, si vede che tanto è cambiato. Dai dubbi paranoici di un Papa, fino allo struggimento esistenziale di una generazione che si sente esaurita. Cosa è rimasto? Chiara Ferragni

La fine del decennio, del resto, è un modo per fare bilanci. Ancora Paolo Sorrentino, con il monumentale (ma solo per la lunghezza) Loro si inserisce nel filone, accennato sopra, dei film su Silvio Berlusconi. Un genere che non era mai stato abbandonato: ma attenzione: più l’ex presidente del Consiglio si allontana dal potere, scalzato da leader più giovani e di successo, più le pellicole che lo riguardano si fanno introspettive, affascinate, riflessive. La ormai lontanissima denuncia di Sabina Guzzanti è stata filtrata da Silvio Forever (2011), seguito da Sexocracy (2012), poi dall’onirico Belluscone – Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco e infine dall’inchiesta-intervista di Alan Friedman My Way, The Rise and Fall of Silvio Berlusconi (2017) con cui si sperava di mettere un punto finale sulla parabola politica ed esistenziale dell’uomo. E invece è arrivato Sorrentino, che ha utilizzato il genio di Toni Servillo per inventare un’ultima, inaspettata, incarnazione del leader politico. Ma non definitiva: nonostante le atmosfere, il cast, le frasi lasciate a mezz’aria, le rappresentazioni della grandezza e dello squallore, alla fine il pubblico preferisce l’originale, tutto sommato ancora vispo e pronto ad aggiugere capitoli (minori, certo) alla sua storia larger than life.

Perché il vero fenomeno del decennio non è Silvio: è Chiara Ferragni. Il suo successo, fatto di social – e soprattutto Instagram – è la quintessenza, forse, degli anni ’10. Per questa ragione Chiara Ferragni – Unposted, il documentario di Elisa Amoruso, chiude una stagione. Racconta cosa è cambiato in questi anni, in termini di business, media, atteggiamenti, mentalità. Se si guarda all’indietro, si vede che tanto è cambiato. Dai dubbi paranoici di un Papa, fino allo struggimento esistenziale di una generazione che si sente esaurita, con in mezzo tutti i tentativi di esorcizzare le dinamiche della crisi economica. Fuga nel fumetto, nella poesia, nell’estetica. Cosa è rimasto? I social e le influencer. La novità che sarebbe germogliata (chi se lo aspettava) era proprio questa.