MonologrammiSiamo tutti morti d’amore, una volta. E siamo nient’altro che fantasmi

La rubrica neopassatista e veterofuturista di Pasquale Panella

La cosa più importante è una, sennò non sarebbe la più importante, è una sola e accade una volta. Cosa si dice di un certo romanzo, di un certo film, di una certa musica? Si dice: invidio chi lo legge, lo vede, la ascolta per la prima volta. Così si dice, no? E allora, se la seconda non è mai più la prima, vuol dire che la prima è l’unica. Ci rendiamo conto? Dopo la prima volta non c’è più quella volta, è estinta. Non è una grande scoperta, è ovviamente così (l’ovvio è la sola certezza / la sola fermezza, / è la vetta della quale non siamo all’altezza: / l’umano mente, / dice che è ovvio per dire che è niente).

La cosa più importante è una, è unica. E quale è la cosa più importante che accade nella vita (nella vita!) di un essere umano? Quella cosa della quale quel romanzo, quel film, quella musica non sono che tentativi imitativi, insufficienti riproduzioni dell’unica sola volta e poi mai più. La cosa più importante (nella vita!) è morire per amore. È ovvio.

Sì, quelle uniche volte di un romanzo, di un film, di una musica che ci colpiscono fino alla sospensione di ogni altro romanzo, film e musica, risvegliano in noi la vaga memoria di quando morimmo per amore la prima volta ossia l’unica e sospendemmo, sì, sospendemmo (con che faccia non ricordiamo?) la vita. Non ce ne rendiamo conto perché cosa vuoi che sia un romanzo, una musica, un film, rispetto all’amor che ci uccise? Niente. Anzi, a quel tempo, quando morimmo, avremmo scansato, persino come fastidiosi, quel romanzo, quel film, quella musica, con un calcio, una manata e un diniego. Avevamo meno di vent’anni e morivamo piacevoli e reciproci. I romanzi, i film, la musica sono manualetti di sopravvivenza per noi già morti d’amore. Ma chi sa leggere veramente, veramente vedere, ascoltare? Nessuna e nessuno, perché sarebbe sconveniente e doloroso ricordare di non essere perché fummo romanzo e film e musica ma soprattutto innamorati morenti, accadde una volta e poi fine: morimmo. È ovvio.

Tutto è scritto, tutto appare, tutto suona, tutto è percepibile dai nostri sensi sentimentali. Ma noi non cogliamo gli avvisi perché l’amore giustamente ci acceca, ci assorda, ci monca,

Ci mangia il naso, ci succhia la lingua. Tutto è scritto nella tua mano che tocca e nella mano che ti tocca, è segnato in una linea che appare in quel momento, quel momento amoroso, ma le mani sono troppo occupate per essere anche lette. Tutto è negli occhi, diventiamo un affresco, un affresco umido, filmico, anche teatrale, in atto finale d’amore, ma gli occhi li chiudiamo perché, si sa, è incomprensibile la nudità, figuriamoci un’opera d’arte (che sarebbe, più della nudità, facile afferrare ma non quando siamo anche noi parte dell’opera). Tutto è suono del quale siamo strumento, quindi storditi, appunto suonati (pensa al violino pizzicato e sfregato da attriti, al pianoforte con le dita negli occhi dei tasti, alla grancassa mazzolata…). Tutto è annusare e assaporare la fine, anzi gustarla, goderla.

Non so perché dico queste cose che non andrebbero dette, non so perché faccio letteratura proibita, insomma non so perché dico la verità: che morimmo d’amore a quel tempo, appena appena giovani morimmo.

Certo, poi ci si accorda, sull’argomento si stringono patti di silenzio coi contemporanei (oh, contemporaneità, / nostra vile omertà). Ma è successo, come no, tutti d’amor morimmo, solo che lo vogliamo dimenticare e ci riusciamo, ce ne dimentichiamo. Ricordiamo magari l’amore, persino come lezioso motivetto di vanteria, ma non la nostra morte, certa ma non fischiettabile. Ci illudiamo che non sia successo, che non morimmo e che siamo ancora vivi, ma siamo nient’altro che lettori, spettatori, ascoltatori, fantasmi di amori. Invece è successo e ce ne siamo dimenticati. La dimenticanza fa di noi i sopravvissuti che siamo, spaesati in tempi e luoghi nei quali, smemorati, non siamo. Così che la vita / è la più finta smentita / dei nostri destini, / i fini delle nostre fini. È ovvio.