Da qualche tempo oramai il concetto di “purpose” aziendale è entrato nell’immaginario collettivo e nel linguaggio quotidiano di molti di noi, e non solo limitatamente al mondo degli addetti ai lavori. Non a caso un numero sempre maggiore di marchi e di aziende si preoccupa non solo di dichiarare il proprio, ma anche e soprattutto di comunicarlo e di renderlo noto quanto più possibile. Questo perché, prevalentemente a partire dalla generazione cosiddetta dei Millennials, le persone non comprano più quello che viene prodotto ma il suo “perché”, dunque quelle organizzazioni il cui agire è già guidato da una brand-purpose ispirano, si differenziano e creano con i propri stakeholder esterni e interni un sentimento di fiducia e appartenenza. Secondo una ricerca di New Cone Communications, il 64% dei consumatori globali afferma di scegliere i brand per le posizioni che prendono su questioni politiche e sociali. Questo dato non mi coglie di sorpresa, ma al contrario mi conferma due convinzioni su cui da tempo vengo ragionando e scrivendo: da un lato l’irreversibilità del sentimento di completa sfiducia nelle istituzioni in cui siamo immersi, e dall’altro l’opportunità per i brand di distinguersi come agenti del cambiamento di cui il mondo ha bisogno permettendoci attraverso l’acquisto e la fedeltà ai loro prodotti, di contribuire alle grandi cause che difendono e con le quali ci identifichiamo.
Gli italiani però sono ancora molto scettici e lo conferma uno studio da poco realizzato da una primaria società di consulenza strategica in comunicazione, con oltre 6.500 addetti nel mondo. Secondo “Purpose Italia”, lo studio che per la prima volta ha analizzato 12 settori chiave dell’economia italiana e 25 top brand a essi associati, ci racconta che meno del 40% dei nostri connazionali dice di conoscere aziende che operano con un “ruolo sociale”. Che le aziende che si impegnano per un obiettivo di interesse comune sono preferite dai consumatori (per il 74.3%) che però rilevano una certa difficoltà a capire quali abbiano davvero a cuore la società in cui operano (per il 70.2%) anche perché spesso associano la loro immagine a quelle di obiettivi di interesse comune solo per rafforzare il proprio business (per il 63.0%) e, in generale, sono poco interessate al mondo che le circonda (per il 66.6%). Infine, poco più della metà degli intervistati preferisce che i prezzi rimangano i più bassi possibili perché in qualità di consumatore non ritiene di dovere alcuna forma di contribuzione al “ruolo sociale” dell’azienda. Un’altra nota discordante rispetto all’andamento globale che vede le giovani generazioni guidare con il proprio livello di fedeltà e ingaggio le preferenze di mercato, in Italia è data dal fatto che l’occhio positivo con cui si guarda alle aziende con un purpose cresce con il crescere dell’età: l’82% del campione tra i 55 e 65 anni preferirebbe prodotti di queste aziende rispetto ad altre. Per il futuro, sintetizza lo studio, si prevede una crescente e meticolosa attenzione allo scopo dei brand, delle aziende e delle organizzazioni in generale. Tant’è che già adesso gli italiani-consumatori sono pronti a punire le aziende che non perseguono il Purpose dichiarato, infatti il 58.1% smetterebbe di acquistarne i prodotti se scoprisse che non è stata coerente. I giovani in Europa e negli Stati Uniti alimenteranno le conversazioni in tal senso. Si apre quindi un’opportunità per ripensare il proprio ruolo e rifocalizzare il proprio business, nell’interesse degli azionisti, dei consumatori e del mondo. La sfida è aperta.
Cercando di spiegare concretamente come far coincidere la tensione sociale dei consumatori e degli impiegati con l’interesse dell’impresa, Kotler diceva «Doing good doing well», come uno dei principi per una nuova Social Business Enterprise, un’azienda che produce denaro mentre trasforma la società in cui opera. Il risultato che emergeva in maniera evidente dall’analisi proposta dal professore, confermava un assunto fondamentale: la ricerca del profitto, sposata intelligentemente alle cause sociali, può compiere il miracolo di creare un mondo migliore e fornire un vantaggio competitivo alle aziende che sanno risuonare all’unisono con i sentimenti, le tensioni e le aspirazioni del proprio mercato. Ma come fa un’azienda a sposare una causa sociale? Naturalmente, poiché si tratta di business, c’è bisogno di un approccio scientifico e statistico, di una comparazione tra costi e benefici. Prima di abbracciare una causa bisogna fare opportune valutazioni considerando l’affinità con il proprio mercato, con il settore di riferimento, con il luogo nel quale si opera, con gli interessi dei lavoratori dell’azienda. Il messaggio più attuale, perché necessario, da sposare e diffondere è questo: esistono dinamiche non sottrattive, di tipo win-win, che portano benefici ai singoli ma anche al mondo nel suo complesso. Sono queste le logiche che ci potranno portare prosperità e consentirci di crescere. Ma soprattutto di farlo tutti insieme. Il lavoro di un’azienda non deve e non può più consistere unicamente nel creare ricchezza per gli azionisti a spese di chiunque altro e di qualunque altra cosa. Coniugare il profitto con i possibili effetti positivi per la società, derivanti dalla propria attività, rappresenta al contempo una scelta necessaria e un forte vantaggio competitivo. Affinché ciò avvenga occorre rimettere l’uomo al centro di tutto.