«Poco dopo la mia nascita», racconta il professor Romano Prodi, «è scoppiata la guerra. E allora mio padre diceva “le disgrazie non vengono mai da sole”». Scherza, l’ex presidente del Consiglio, a 80 anni compiuti, di fronte alla platea di Più libri più liberi, la fiera romana della piccola e media editoria, invitato a discutere sul futuro dell’Europa e, in generale, della scena politica attuale.
«Dopo, finite le disgrazie, è cominciata la ricostruzione. Allora l’Italia era un Paese massacrato, disastrato, distrutto. Ma era unito. Con una grande volontà comune». La visione ottimista per il futuro era «scontata». Tanto che «quando andavo a Milano – all’epoca ero una matricola all’università – eravamo , io e i miei amici, tutti convinti che sarebbe diventata come New York».
Poi le cose hanno preso un’altra piega. L’Europa adesso arranca. L’Italia ancora di più. E accanto ci sono due potenze, Stati Uniti e Cina, le cui parabole potrebbero incrociarsi ed esplodere. Ma il professore trova spazio per un po’ di ottimismo.
«Pensiamo alle ultime elezioni europee: le previsioni erano molto peggiori di quello che poi è stato il risultato. Si può dire che il blocco europeista, che non è più rappresentato solo dai due partiti principali, quello democristiano e quello socialista, ma si è allargato, ha resistito». Merito dell’idea di Europa? Non proprio: «Gli elettori hanno percepito l’allontanarsi degli Usa – fenomeno già iniziato con Obama, e il crescere della Cina». Risultato: adesso popoli e governanti devono capire che occorre rafforzare la propria unione, devono «mettersi insieme ancora di più. Devono imparare a cantare in coro», dice. Altrimenti saranno stritolati.
«Quando da matricola andavo a Milano io e i miei amici eravamo tutti convinti che sarebbe diventata come New York»
Facile a dirsi. Sul come, il professore non si dilunga più di tanto. Anche perché i temi affrontati sono numerosi: la crescita del gigante cinese, («l’avevo già avvertita nella sua potenzialità alla mia prima visita, nel 1984, quando ero presidente dell’Iri»), le ipotesi di scontro militare con gli Stati Uniti, analizzate secondo lo schema “potenza stabilizzata” contro “potenza crescente”, «sul modello di Sparta e Atene», segue la guerra libica, giudicata assurda («Mai visto un Paese che appoggia una guerra contro i propri interessi») e più in generale il destino dell’Africa. E infine la crisi globale delle democrazie, caratterizzata dalla tendenza «alla delega all’uomo forte». Cosa in atto«nelle Filippine, in India, in Cina. Anche negli Stati Uniti». Argomento che conduce, dopo una rapida sosta sul caso Macron e la rivolta dei pensionati, agli argomenti più caldi. La politica interna italiana, dove non c’è (più) l’uomo forte, ma si è imposto il modello della coalizione.
«È nomale», spiega. «O c’è una legge che, in modo artificiale, crei un governo di maggioranza, come in Francia o in Inghilterra, oppure nel quadro politico attuale si può solo prendere la strada della coalizione», di cui lui – ricorda – è un grande esperto. «Potrei insegnare Scienze della Coalizione», ride.
Il governo proseguirà? «Sì, a meno che non ci siano incidenti. Capitano quando c’è molto traffico. E adesso nella politica c’è molto traffico»
E però, tra coalizione e maggioritario, «scelgo il maggioritario». Perché «il compito della politica non è fotografare un Paese, ma dargli un governo». E la frase, soprattutto in un momento in cui si sono affacciate varie ipotesi di riforma di legge elettorale, è pesante. E rincara: «Gli scontri nella coalizione sono un fatto normale. Anche questo sul Mes, del resto, non è di natura europea, ma di natura interna». Tutto regolare, allora? Il governo proseguirà? «Sì, a meno che non ci siano incidenti». E, aggiunge, «gli incidenti sono inaspettati. Ma per strada capitano per strada quando c’è molto traffico. E adesso anche nella politica c’è molto traffico». Se si riferisse ai vari partiti nati dopo la formazione del governo (Renzi e Calenda) non è dato sapere, anche perché non li nomina mai. Di sicuro non ai movimenti spontanei, organizzati da giovani, come quello delle sardine (ma anche ai manifestanti dei FridaysforFuture), per cui ha una forte ammirazione.
«Non conoscendoli da dentro, mi limito a giudicare il modo in cui parlano». E «il loro linguaggio mi piace: ragionano, riflettono, spronano, ma senza pugnalate e sciabolate». E – nota – fanno parte di un fenomeno di movimenti popolari senza leader, che si può ritrovare in tutto il mondo: gilet gialli, Hong Kong. Adesso le sardine. «Lasciamoli fare. Non devono essere colonizzati da nessuno». Più che altro, «lasciamoli cantare: perché cantano in coro».