Finte buone notizieSalari in aumento? Ecco perché sono solo uno specchietto per allodole

Secondo le ultime statistiche, gli stipendi medi sono tornati a crescere. Ma resta il problema che la bassa produttività e l‘inflazione erodono il potere d’acquisto delle persone, lasciando comunque il nostro Paese in coda al resto d’Europa

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Fine dell’anno, fine del decennio – il più triste per l’economia italiana dal Dopoguerra – ed è tempo di bilanci. Non solo in campo contabile. Anche perché quello che alla fine interessa più di ogni altra cosa agli italiani non è tanto il livello raggiunto dal debito o l’asfittica crescita del PIL, quanto il livello dei propri stipendi – asfittico anch’esso, come sappiamo.

Questi ultimi dieci anni hanno rappresentato un cambiamento deciso. Per la prima volta dopo molto tempo i salari italiani sono cresciuti meno della media europea. Nei decenni precedenti accadeva l’opposto, i salari e il costo del lavoro crescevano più che in Germania e nella gran parte degli altri Paesi occidentali, nonché più della produttività, generando come effetto collaterale, tra l’altro, un’inflazione maggiore e un’occupazione particolarmente bassa. Era un po’ l’esito della società patriarcale, per cui si pagava bene il pater familias che doveva portare il pane a casa, a patto che a casa ci stesse la moglie.

Solo che dopo un po’ ci si è accorti che senza lavoro rimaneva anche il figlio. Negli anni ‘80, nonostante l’alta crescita del reddito, abbiamo raggiunto tassi d’occupazione minimi, anche più bassi che nei recenti periodi di recessione.

Oggi c’è stata un’inversione, l’occupazione cresce più del PIL, e sono gli stipendi che di conseguenza vanno a ritmi molto ridotti. Di per sé non sarebbe un male prediligere l’aumento dell’occupazione, se non fosse che la bassissima produttività italiana costringe i salari a crescere non solo meno di quanto accada nel resto della Ue, soprattutto dopo il 2013, ma spesso anche meno dell’inflazione, con una perdita netta di potere d’acquisto.

Questa rappresenta una delle maggiori novità del decennio, che viene vissuta con molto disagio. Peraltro, il fatto di avere più lavoratori, molti part time e precari, è di poca consolazione. Tra l’altro nell’ultimo anno ha contribuito tutt’altro che positivamente il fatto che le tasse sul lavoro siano cresciute più che nella Ue, con il risultato di avere salari bassi ma un cuneo fiscale in aumento, e una competitività in ulteriore sofferenza.

Guardando più in profondità nelle statistiche però emergono dei dati particolarmente interessanti, forse sorprendenti. Perchè come è logico l’andamento dei salari non è stato lo stesso per tutti. C’è chi li ha visti crescere di più o di meno negli ultimi 10-20 anni. E perlomeno fino al 2018 a “vincere” erano i più poveri.

Rispetto al 2000 ad avere incrementato di più i propri stipendi netti sono stati i single (qui intesi come non sposati) con un salario che corrisponde al 50% della media. L’aumento è stato del 53,8% in 18 anni. Anche guardando a chi è in coppia e/o ha figli, sono i single con figli e stipendio inferiore alla media quelli che mettono a segno gli incrementi maggiori, del 49,5%.

In generale se la sono cavata meglio coloro che hanno figli rispetto a chi non ne ha, ma la differenza non è enorme: una coppia con un stipendio medio con prole ha visto aumentare il proprio salario complessivo del 42,9%, contro il +39,6% di una coppia con salario simile. A fare la differenza è il livello dello stipendio: più è basso e maggiore è l’incremento rispetto al 2000.

Tanto che coloro che hanno visto aumentare meno i propri salari sono i single con uno stipendio che sia il 125% più alto del livello medio: qui l’incremento è stato solo del 35,7%. Ancora inferiore, del 33,4%, è stato l’aumento di coloro che guadagnano molto, il 167% della media.

È una tendenza che si conferma e anzi si rafforza se si prende in considerazione il trend dal 2010, rispetto al quale scompaiono invece le già ridotte differenze che c’erano sulla base della presenza dei figli, segno anche di una assenza di politiche significative collegate alla famiglia negli ultimi anni.

Al contrario, la crescita degli stipendi di chi, tra i single, ha uno stipendio della metà di quello medio, è per esempio in termini percentuali più del doppio di quella di chi ne ha uno più alto del 167% della media, +17,7% contro +6,3%. In termini assoluti in entrambi i casi l’incremento è di poco inferiore ai 2 mila euro, che però per chi prende meno della metà valgono naturalmente molto di più.

All’estero si assiste a qualcosa di simile tra i single in Spagna, sebbene con un divario minore, e in parte in Francia. Dove piuttosto vengono premiati di più i single più poveri ma con figli, con aumenti più che doppi rispetto agli altri single, o anche rispetto alle coppie con due stipendi. Segno forse di un intervento pubblico significativo.

Mentre in Germania la situazione è diversa, vi è molto equilibrio, anzi con un incremento più accentuato degli stipendi di chi ha già i salari più alti.


Il risultato è che oggi lo stipendio netto di un single con il 50% del salario medio è solo dell’8,2% inferiore a quello europeo, 13.017 euro contro 14.176, mentre quello di chi prende di più (il 67% in più della media) si distanza dal salario medio europeo del 17,2%, e in questa categoria siamo superati anche da Spagna e Cipro.


Da un lato è certamente una buona notizia. Indica una sorta di democratizzazione, una riduzione della disuguaglianza, è positivo il fatto che nella crescita occupazionale a essere stati protagonisti siano stati coloro che magari giovani o con bassa professionalità sono stati più richiesti di altri, tanto a portare a un aumento maggiore dei loro salari.

Dall’altro non possiamo negare che è anche un effetto della nostra bassa produttività. Che a crescere più di tutti siano i posti di lavoro e gli stipendi dei settori a basso margine, in prospettiva non può farci piacere.

E non è un caso che complessivamente i “perdenti” tedeschi, ovvero quelli i cui stipendi sono cresciuti meno, abbiano avuto incrementi comunque maggiori di quelli dei “vincenti” italiani, o spagnoli.

Perché la conseguenza ultima di una bassa produttività è questa, che nel nostro piccolo i più poveri hanno qualche possibilità in più di trovare un lavoro, magari nel commercio, nella ristorazione, nel turismo, e nella fase di ripresa da una crisi è un toccasana, ma in realtà alla lunga perdiamo tutti, tutti finiamo per guadagnare meno che nei Paesi dove le multinazionali e le grandi imprese investono, fanno ricerca, si espandono nei settori più competitivi.

È quello che stiamo vivendo in Italia. Dove la classe media e alta è in realtà sempre più povera rispetto agli standard europei, e chi sta peggio può al massimo consolarsi con l’avvicinamento a chi sta meglio, ma l’Europa rimane comunque sempre più lontana.

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