La scuola del futuro esiste già. Hanno le stampanti 3D e le serre idroponiche, i divani in corridoio e l’agorà dove gli studenti possono presentare i propri lavori ai compagni delle altre classi, allenandosi al public speaking o confrontandosi nel debate, nome nuovo per l’antica ars oratoria. Basta entrare in una delle mille scuole delle Avanguardie Educative, il movimento nato in seno a Indire-Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa per supportare e soprattutto per mettere a sistema l’innovazione della didattica.
Nata a Genova alla fine del 2014 con 22 scuole fondatrici, oggi alle Avanguardie Educative aderisce il 15% delle scuole italiane, con 27 scuole-polo, disseminate in tutte le regioni. Il traguardo di tutto rispetto della millesima scuola iscritta è stato segnato grazie all’Istituto San Giovanni Bosco di Taranto. Delle mille scuole, 262 sono al Nord, 234 al Centro e 504 nel Sud e nelle isole; 341 sono istituti di città e 659 sono invece nella provincia; 577 appartengono al primo ciclo scolastico (scuole primaria e secondarie di primo grado) e 423 al secondo ciclo (scuole secondarie di secondo grado). «Le opportunità di innovazione non arrivano con la tempesta ma con il fruscio della brezza», diceva l’economista Peter Drucker.
Così sono le Avanguardie Educative, un movimento che sta cambiando le scuole con una rivoluzione gentile. L’idea da cui le Avanguardie Educative sono nate è quella di smontare «il modello tayloristico della trasmissione del sapere» (così lo definiva cinque anni fa il presidente di Indire, Giovanni Biondi): ciò per cui la scuola si ripete da decenni sempre identica a se stessa. Per farlo, si è pensato di mettere in rete le migliori esperienze di chi la scuola aveva già provato a cambiarla, dal di dentro, supportandole con un progetto di ricerca-azione. Perché una scuola diversa non solo è possibile, ma esiste già. E perché l’innovazione non è il provare a fare cose diverse, ma l’esito di un sapere.
Le opportunità di innovazione non arrivano con la tempesta ma con il fruscio della brezza
Elisabetta Mughini dirige la ricerca sull’innovazione di Indire ed è il referente scientifico di Avanguardie Educative. Ci racconta di «un movimento che potesse, attraverso l’esperienza pluridecennale di Indire sull’innovazione, all’epoca in particolare sulle nuove tecnologie, iniziare a mettere a sistema le innovazioni che stavano cambiando il modello di scuola. Insieme alle 22 scuole fondatrici abbiamo steso un “Manifesto programmatico per l’Innovazione”, costituito da sette orizzonti di riferimento che esplicitano la vision di AE». Fra tutti, Mughini sottolinea «la centralità dello sudente e la scuola come luogo che lo rimette al centro, creando situazioni di apprendimento attivo per costruire le competenze per il futuro». Il punto di partenza è la consapevolezza che «il nostro modello di scuola era già nel 2014 obsoleto rispetto alle esigenze degli studenti e della società, anche rispetto alle prospettive lavorative».
Fin dall’inizio è chiaro che “innovazione” non coincide con “nuove tecnologie”: «La tecnologia è un alleato utile per innovare il modello, ma da subito la necessità evidente era quella di rendere lo studente attivo. Per riuscirci, bisognava cambiare i tempi e gli spazi della scuola, in particolare capovolgere il ritmo ternario fatto di spiegazione, compito a casa, interrogazione», spiega Mughini. Ecco allora che la scuola inizia ad essere luogo in cui si fa “esperienza del sapere”, che significa introdurre metodologie che fanno lavorare con i compagni, togliere la cattedra al docente e farlo girare fra i banchi, creare spazi e tempi di apprendimento flessibili, in cui trovino casa il cooperative learning, il learnign by doing e la laboratorialità.
La tecnologia è un alleato, ma l’innovazione è rendere lo studente attivo. Per riuscirci, bisogna capovolgere i tempi e gli spazi della scuola
Dopo cinque anni, l’efficacia dell’innovazione ha la sua prima “valutazione d’impatto”, che verrà presentata a inizio 2020. Gli esiti ottenuti nelle prove Invalsi da 380 alunni e studenti di 34 istituti aderenti alla rete da almeno tre anni, incrociati con i risultati ottenuti da scuole con analoghe caratteristiche sociali, economiche e geografiche ma non aderenti alla rete «hanno mostrato valori mediamente superiori sia in italiano che in matematica», anticipa Mughini. «Non è una relazione diretta, ma si può dire che il processo di innovazione sta creando risultati buoni in termini di miglioramento delle performance della scuola e degli studenti. L’altro dato è che in quasi tutte le scuole Avanguardie educative il tasso di dispersione scolastica e l’assenteismo sono stati ridotto a zero: l’innovazione serve anche a rendere la scuola un luogo in cui si sta volentieri». Per Giovanni Biondi, presidente di Indire, i numeri di Avanguardie Educative sono «il segnale evidente che esiste una spinta all’innovazione che proviene “dal basso”, dalle stesse scuole, e non è imposto dall’alto». E svela qualche dato in più rispetto allo studio comparativo: «il 68% delle classi avanguardie ha un punteggio medio in Italiano superiore, mentre per la prova in Matematica la percentuale è del 61,6%».
Avanguardie Educative nasce con 12 idee nella “Galleria delle idee per l’innovazione”, dalla ormai celebre Flipped classroom alla Didattica per scenari. Le scuole hanno iniziato ad adottarle, realizzarle e modificarle… I ricercatori Indire, nel frattempo, seguono le applicazioni e anche le loro varianti, validando quelle effettivamente innovative e coerenti con il Manifesto: «In questi cinque anni le idee sono passate da 12 a 18. Si sono aggiunte ad esempio Oltre le discipline; Dialogo euristico; MLTV-making learning and thinking visible, studiato con la Harvard University e il Service learning, ossia un apprendimento che nasce dallo svolgere un’attività socialmente impegnata», dice Mughini.
L’edizione 2019 di Didacta – il più importante appuntamento fieristico dedicato alla scuola, di cui Indire è partner scientifico – aveva per titolo “Voce del verbo innovare”. Avanguardie Educative vi ha portato due ambienti che rappresentassero plasticamente l’innovazione, nella certezza che «lo spazio insegna». Un ambiente declinava il setting per la suola primaria, l’altro per la secondaria. La ricerca di Indire, nella direzione dell’architettura, indica che la scuola deve essere fatta di «quattro spazi più uno», continua Mughini: «Lo spazio individuale, lo spazio informale, lo spazio di esplorazione, l’agorà e poi il più uno che è quello più simile all’aula, destinato al gruppo. L’idea è che il percorso didattico quotidiano, lungo tutto l’anno scolastico, abbia momenti diversi: dopo l’accoglienza, dove il docente assegna un compito e dà indicazioni sul lavoro da svolgere, i ragazzi si muovono nello spazio della scuola, andando in ambienti diversi a seconda del compito. C’è il momento per l’esplorazione e il laboratorio, quello raccogliersi, concentrarsi e lavorare da solo, quello per condividere con gli altri e anche quello per liberarsi la testa, con piccole biblioteche e zone relax nei vecchi corridoi».
La scuola deve essere fatta di “4 spazi + 1: lo spazio individuale, quello informale, per l’esplorazione, l’agorà. E uno destinato al gruppo
Portare a sistema l’innovazione quindi vuol dire tante cose: cambiare gli spazi delle scuole, anche nei vecchi edifici degli anni ’60; lavorare sulla leadership dei dirigenti scolastici; disseminare una cultura dell’innovazione fra i docenti. Perché può sembrare strano, ma «la cultura dell’innovazione è patrimonio dei docenti che hanno alle spalle tanti anni di insegnamento: proprio perché padroneggiano la disciplina e le strategie didattiche, non hanno paura di perdere qualcosa nel momento in cui si pongono in modo diverso. I più giovani invece tendono a ripetere il modello di scuola che hanno vissuto e che hanno visto in atto all’università», dice Mughini.