A un certo punto cadono petali di fiori. Avviene mentre uno dei protagonisti, il caporale Schofield (George McKay), scivola stremato lungo un fiume, aggrappato a un tronco d’albero che lo tiene a galla. È uno dei rari bagliori, in un film dove abbondano morti, incendi, fango e sangue. È anche il segno, per chi si ricorda di American Beauty, che siamo nell’universo di Sam Mendes.
Anche per 1917, l’ultima fatica del regista inglese, l’attesa per gli Oscar è alta. E anche stavolta sono piovuti elogi, come petali, da più parti. A fronte di una storia «semplicissima» (ereditata dai racconti di guerra del nonno) in cui due soldati inglesi, al fronte contro i tedeschi durante la Prima Guerra mondiale, ricevono l’incarico di consegnare un messaggio al plotone in prima linea per fermare un attacco già pronto, tutta l’attenzione della critica si è concentrata sulla tecnica. Le riprese sono in un piano sequenza continuo – a parte due momenti di stacco – e seguono i due protagonisti sia nelle trincee che in campo aperto. Abbracciando i loro movimenti nella no man’s land e, calibrando distanza e vicinanza, aumentano la suspance o allentano la tensione.
Una scelta impegnativa, richiede molta disciplina sul set (organizzare le comparse, sempre le stesse 50 persone, per seguire il percorso della telecamera, non è semplice) ma ha un grande risultato: un film immersivo. È questo il suo pregio maggiore. Il problema è che, a conti fatti, rischia di rimanere l’unico. Perché 1917 segue un modello di film di guerra, sviluppato negli ultimi anni, che si può riassumere in: trama esile, elaborazione tecnica altissima. Il sofisticato gioco di Dunkirk, di Christopher Nolan, che alternando piani temporali (ore, giorni e settimane) e spazi (cielo, mare, spiaggia) riesce a dare profondità a una storia altrimenti esangue, trova eco nell’illusione della presa diretta di 1917, che finge di trascinare lo spettatore in mezzo alle trincee e crea l’impressione di seguire, minuto dopo minuto la missione dei soldati. L’estetica, a parte le esplosioni che fanno tremare il cinema, è quella del videogioco.
Esangue, del resto, è anche la caratterizzazione storica. Trincee e modelli di fucile a parte, niente distingue questa guerra (è il 6 aprile 1917, giorno in cui gli Usa rompono gli indugi. Data casuale o pensata per gli Oscar?) da qualsiasi altra. Ci sono nemici (quasi) senza volto, cecchini in edifici diroccati, fanciulle locali che, nella luce soffusa di uno scantinato, prestano soccorso e pace ai messaggeri in missione. E comandanti, come l colonnello MacKenzie, alias Benedict Cumberbatch, che esprimono la loro amara filosofia appresa nella vita al fronte. In quale film non si sono già viste tutte queste cose, e tutte insieme?
Non solo. Ci sono cavalli in decomposizione, pile di cadaveri squartati, pezzi di braccia, gambe e volti sparsi nel sangue. È la guerra, va bene ma ricorda più gli effetti speciali di un film di Quentin Tarantino. Per Manohla Dargis del New York Times, «tutto sembra autentico, ma curatissimo, messo in ordine, sano e sterile». E in più scompaiono gli orrori mentali, gli impazzimenti, gli atti di autolesionismo. Restano solo dei ragazzi che, chiacchierando durante un trasferimento su un camion, giocano a imitare il loro comandante e ad augurarsi che la guerra finisca presto. L’impressione è che la guerra, nel 2020, sia diventata più un genere estetico/cinematografico che una esperienza reale, assassina e critica per chi vi prende parte o ne subisce gli effetti.
Intanto, i due soldati in missione corrono. Uno più motivato dell’altro (nel plotone che rischia di finire in trappola c’è anche suo fratello), superano ostacoli (che paiono un livello da superare) e simbologie (terra, fuoco, acqua e aria), sottolineando il contrasto tra il loro movimento continuo e la stasi della prima vera guerra di posizione.
Come finirà, è intuibile. Resta da segnalare, nella scala dell’epico, la corsa finale e disperata lungo l’argine della trincea. E prima ancora, il raduno nel bosco dei soldati in attesa di scendere in prima linea. In mezzo, uno di loro canta per tutti The Wayfarer Stranger. Niente di strano: il brano, pezzo classico della tradizione inglese, parla dei dolori di un viandante, che al termine della sua esistenza otterrà, come ricompensa, di rivedere i suoi cari. Molti di quei soldati, quasi cento anni fa, non hanno avuto la sua stessa fortuna.