Un aereo civile centrato in pieno da un missile, come in un videogame, con a bordo decine di innocenti capitati nel momento sbagliato in un posto molto sbagliato. Il puzzle delle prove che viene completato un tassello dopo l’altro: frammenti di un missile, intercettazioni radar, video amatoriali e testimonianze di gole profonde, che inchiodano il responsabile. E il responsabile che rifiuta di farsi inchiodare: no, non l’abbiamo abbattuto noi, è caduto da solo, come vi permettete. Poi arriverà il “sì, è stato abbattuto, ma da qualcun altro per farci un dispetto”, e infine, dopo essere stati messi al muro dalle prove, un “sì, l’abbiamo abbattuto noi, ma avevamo ragione a farlo”.
Un film già visto, quello che sta andando in onda da Teheran, dove l’8 gennaio un Boeing della Ukrainian International Airlines è precipitato nei pressi dell’aeroporto di Imam Khomeini pochi minuti dopo il decollo. Meno di 48 ore dopo, il premier canadese Justin Trudeau – tra le 176 vittime 63 erano canadesi – ha reso ufficiale quello che i media americani e le fonti di intelligence stavano già dicendo da ore: l’aereo è stato abbattuto da un missile iraniano. Il presidente ucraino Vladimir Zelensky – che ha un talento davvero raro a finire schiacciato in mezzo a grandi scontri della politica internazionale, dopo aver fatto involontariamente da innesco per l’impeachment di Trump – ha chiesto agli alleati americani e canadesi di consegnargli tutte le prove, ma si muove con prudenza, anche perché a Teheran ci sono come potenziali ostaggi una cinquantina di esperti ucraini inviati a indagare. Non sarà facile: gli iraniani stanno negando con indignazione le accuse e invitano tutte le parti interessate a unirsi all’indagine, mentre si rifiutano di mostrare le scatole nere agli americani e hanno già ripulito il sito del disastro da tutti i frammenti, passandoci sopra con la ruspa.
Le prossime puntate seguiranno a breve, il copione è già collaudato. L’ultima volta che è andato in scena è stato il 17 luglio 2014, quando un Boeing malese con 298 persone a bordo è stato abbattuto sopra il Donbass dai separatisti filorussi in guerra contro l’Ucraina, assistiti da una batteria della contraerea dell’esercito di Mosca (che continua a negare la sua responsabilità). Quella volta il missile incriminato era un Buk russo, stavolta è un Tor-M1, sempre made in Russia. È un missile terra-aria a decollo verticale, montato su un’enorme piattaforma che lo rende mobile e autonomo, come quelle che Vladimir Putin sfoggia compiaciuto nelle sfilate militari in piazza Rossa, alle quali invita mezzo mondo e poi si segna stizzito i leader che rifiutato di presenziare alla passerella della sua gloria. È farcito di elettronica che dovrebbe essere in grado di identificare gli aerei e attivarsi in pochi secondi per colpire un velivolo non identificato. Mosca ne ha forniti una trentina all’Iran nel 2009, nonostante le proteste di Wasghington e di altre cancellerie internazionali.
Il resto è facilmente immaginabile. L’Iran entra in allerta dopo il blitz ordinato da Trump contro Soleimani. Lancia missili contro le basi americane in Iraq e attiva la contraerea in attesa di una rappresaglia. Alla batteria che deve proteggere l’aeroporto della capitale da un’eventuale raid montano la guardia giovani soldati, martellati da ore e ore di propaganda, dalla tensione che monta con i funerali di Soleimani. Avvistano un puntino sul radar. Probabilmente, per un errore del programma o per incapacità loro, non riescono a identificarlo subito come un aereo civile. Hanno i secondi contati per decidere se schiacciare il pulsante. Se è un mezzo nemico, avranno salvato la nazione islamica e saranno diventati degli eroi. Se non sparano, saranno puniti. Non c’è tempo per pensare alla possibilità di un tragico errore. Probabilmente, dopo avranno anche esultato, come avevano esultato gli ufficiali russi a Donetsk dopo aver buttato giù il Boeing malese, che credevano essere un cargo militare ucraino.
C’è sempre un missile russo in queste storie. Putin li pubblicizza nei suoi discorsi in pubblico, poi li mostra in piazza Rossa, poi li collauda in Siria con video spettacolari trasmessi dalla TV, e poi li manda ai suoi alleati in tutto il mondo. Tutti questi missili che finiscono ogni tanto nel mirino delle polemiche internazionali – gli S-300 e S-400, i Tor, i Buk – sono batterie della contraerea. Servono a una sola cosa: a far sentire al sicuro e impuniti coloro che lanciano un attacco. Impediscono una rappresaglia, o almeno dovrebbero, visto che in Siria non hanno mai fermato i raid americani (probabilmente, una decisione politica, per evitare un’escalation), buttando invece giù per errore un cargo russo. Insomma, permettono di tirare il sasso e poi di non nascondere nemmeno la mano. È per questo che sono tanto richiesti da tutti quelli che vorrebbero sgarrare le regole internazionali, ed è per questo che il Cremlino è così disponibile a fornirli a venezuelani, iraniani, turchi e arabi.
Il problema è che le armi complicate hanno bisogno di un sistema complicato. E le dittature sono semplici. Il sogno di conquistare le tecnologie è tipico degli autoritarismi arretrati che vorrebbero competere con il mondo sviluppato. Mahmid Ahmadinejead si lamentava che l’Occidente negasse al suo Paese il nucleare per impedirgli di competere da eguale. La dinastia dei Kim ha ridotto la Corea del Nord alla fame pur di avere la bomba, nonostante i suoi missili non riescano quasi mai a colpire il bersaglio. E poi arriva la Russia (che a sua volta aveva rubato a suo tempo i disegni della bomba atomica da Los Alamos) e porta loro il fuoco di Prometeo, mettendo in mano a pasdaran iraniani, chavisti venezuelani o semplici banditi del Donbass armi complesse e letali, come l’Unione Sovietica aveva messo in mano ai guerriglieri di mezzo mondo il kalashnikov. Armi che richiedono preparazione tecnica, strutture tecnologiche e soprattutto una catena di comando collaudata e a prova di errore, non basata solo sull’indottrinamento ideologico e sulla paura. Non è solo un gap tecnologico, è un gap etico: a differenza dei Boeing abbattuti a Donetsk e a Teheran, quello sudcoreano buttato giù nel Mar del Giappone dai sovietici nel 1983 non era stato un errore, e Mosca non l’ha mai negato. Il pilota aveva confessato di aver visto con i suoi occhi che si trattasse di un aereo civile. «Ma per me non significava nulla», ha detto. Poteva avere a bordo delle apparecchiature spia. Il sospetto è stato sufficiente a schiacciare il pulsante e uccidere 269 ignari viaggiatori, senza nessun senso di colpa.
La differenza tra le democrazie e le dittature non è nell’hardware, come pensano i dittatori, è nel software. Gli errori capitano, anche se non dovrebbero. La stessa Ucraina aveva abbattuto incidentalmente nel 2001 un charter russo pieno di passeggeri israeliani, durante esercitazioni militari con gli S-200 lanciate dopo le Twin Towers. Ha ammesso (non subito) la colpa e pagato risarcimenti milionari. I regimi ideologici non ammettono mai la colpa, la loro forza è quella di avere sempre ragione e chiedere scusa per loro equivale a un harakiri.