“La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945”. Così in La tregua Primo Levi racconta quella liberazione di Auschwitz di cui ricorrono i 75 anni, e in memoria della quale il 27 gennaio è diventato il Giorno della memoria delle vittime del Nazismo. Proprio la Germania fu il primo Paese a proclamarla, seguita tra gli altri anche dall’Italia nel 2000, e infine su tutti dall’Onu con la risoluzione 60/7 del primo novembre 2006.
“Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti”, è sempre il ricordo di Primo Levi. “Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi”.
Erano un’avanguardia di esploratori quella Prima Armata del Fronte Ucraino Ivan Stepanovič Konev, i cui uomini arrivano in massa nel pomeriggio. Abbatterono i cancelli, e si trovarono di fronte a 7000 sopravvissuti ridotti a pelle e ossa, che li accolsero con un senso di meravigliato stupore. “A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era piú alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo”, continuava Primo Levi. “Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo”.
Lo stupore era anche dall’altra parte: ma di un tipo diverso. “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”. Tra le prime tracce dell’orrore, i soldati dell’Armata Rossa rinvennero 8 tonnellate di capelli umani, e centinaia di migliaia di abiti.
Almeno un milione e mezzo di persone erano stati uccise o fatte morire di stenti nel campo di sterminio che dopo l’occupazione della Polonia i nazisti avevano deciso di stabilire nella cittadina che in polacco si chiama Oświęcim e in tedesco Auschwitz: un centro a 75 km da Cracovia dove ironicamente per secoli ebrei e tedeschi protestanti avevano convissuto senza problemi. Oppositori polacchi, criminali tedeschi e zingari furono inizialmente destinati in alcune vecchie caserme alla periferia. Recintata con filo spinato elettrificato, la zona fu chiusa da un cancello di ferro sormontato dalla scritta Arbeit macht frei: “il lavoro rende liberi”. La B era al contrario, forse come gesto di protesta del fabbro.
Operativo dal 14 giugno 1940, il complesso fu ampliato ulteriormente dapprima con il campo di Birkenau, riservato inizialmente ai prigionieri sovietici. Poi con il campo di lavoro di Monowitz, in vista di un progetto per l’utilizzazione del lavoro dei deportati per una fabbrica di gomma sintetica in effetti mai realizzata. Dopo che la conferenza che nel gennaio 1942 a Wannsee decise la soluzione finale, nell’area iniziarono a essere deportati ebrei da tutta l’Europa occupata.
A parte Primo Levi, anche Anna Frank finì ad Auschwitz assieme alla sorella Margot. Ci passarono un mese prima di essere spedite a Bergen Belsen, dove morirono di tifo esantematico: probabilmente nel febbraio del 1945. Anche il futuro Nobel per la Pace Elie Wiesel, allora 17enne, passò per Auschwitz, per essere poi spostato a Buchenwald. E lì sarebbe stato liberato dagli americani, l’11 aprile 1945. “Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto” è un suo ricordo, riecheggiato nella canzone che a Auschwitz dedicò Francesco Guccini: la prima da lui scritta. “Son morto con altri cento /Son morto ch’ero bambino/ Passato per il camino/ E adesso sono nel vento/ E adesso sono nel vento/ Ad Auschwitz c’era la neve/ Il fumo saliva lento/ Nel freddo giorno d’inverno/ E adesso sono nel vento/ Adesso sono nel vento/ Ad Auschwitz tante persone/ Ma un solo grande silenzio/ È strano non riesco ancora/ A sorridere qui nel vento/ A sorridere qui nel vento”.
Vicino a Birkenau passava una linea ferroviaria, che facilitava le deportazioni. Al loro arrivo i prigionieri venivano spogliati di tutto e rivestiti con una casacca standard che si distingueva per un contrassegno colorato all’altezza del torace: identificava la categoria del detenuto, e agli ebrei era associata ad esempio una stella gialla a sei punte. C’era anche un numero di matricola, tatuato anche sul braccio sinistro.
Ad Auschwitz I, in effetti, il numero di detenuti fluttuò tra le 15.000 e le 20.000 unità, e i morti furono “solo” 70.000: un “solo” ovviamente molto relativo. In effetti le vittime furono qui soprattutto polacchi o sovietici, ma comunque fu nei sotterranei della prigione del campo che il 3 settembre 1941 venne sperimentato per la prima volta su 850 prigionieri il gas Zyklon B, normalmente usato come antiparassitario.
Ad Auschwitz II Birkenau, distante 3 km dal campo principale e operativo dall’8 ottobre 1941, morirono almeno 1,1 milioni di persone: in gran parte ebrei, ma anche sovietici polacchi, omosessuali, oppositori, testimoni di Geova e zingari. All’arrivo i prigionieri erano selezionati, e quelli considerati inabili al lavoro venivano condotti alle camere a gas. Capace di “ospitare” fino a 100.000 prigionieri per volta, era dotato di quattro grandi Crematori che ardevano ininterrottamente giorno e notte. Auschwitz III Monowitz stava invece a 7 km, e fu operativo dal 31 ottobre 1942. Dalla capacità di 12.000 prigionieri, fu lì che finirono sia Primo Levi che Elie Wiesel. In più c’erano attorno ai tre campi principali ben 45 sottocampi. Una vera e propria galassia dell’orrore.
Quando l’Armata Rossa iniziò ad avvicinarsi, Himmler diede l’ordine di evacuare tutti i prigionieri e di distruggere tutte le tracce: dai forni crematori agli indumenti delle vittime ammassati nei magazzini. Tra gli evacuati ci fu Liliana Segre, che sarebbe stata liberata a maggio pure dall’Armata Rossa, ma a Ravensbrück. Ma a Auschwitz l’Armata Rossa arrivò più rapidamente del previsto, e la gran parte del complesso rimase intatto.
Non è vero che prima della liberazione di Auschwitz non si sapesse dell’Olocausto. Già nel luglio del 1944 l’Armata Rossa aveva raggiunto il lager di Majdanek, vicino a Lublino. Le SS avevano fatto in tempo a distruggere i crematori ma non le camere a gas, che erano rimaste intatte. E pure nell’estate del 1944 i sovietici avevano pure scoperto i resti dei campi smantellati di Belzec, Sobibor e Treblinka. Già il 7 aprile 1944, peraltro, i due ebrei slovacchi Walter Rosenberg e Alfred Wetzler erano riusciti a evadere da Auschwitz, ed avevano redatto un rapporto anche noto col titolo I protocolli di Auschwitz, ironico riferimento a libello antisemita “I protocolli dei Savi di Sion”. E quel documento aveva raggiunto la Svizzera, la Bbc, il New York Times, il Vaticano.
Prima ancora era stato il resistente polacco Jan Karski a riuscire a infiltrarsi fino nel Ghetto di Varsavia per poi arrivare fino a Washington, dove il 28 luglio 1943 era stato ricevuto da Franklin Delano Roosevelt in persona. “Lasciai lo studio presidenziale dopo un’ora e venti minuti di colloquio”, ricordò. “Roosevelt aveva la stessa aria fresca e riposata di quando mi aveva accolto. Io ero distrutto”. Ma il successivo colloquio con Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema, si sarebbe chiuso con una frase disarmante. “Complimenti, ma non posso credervi”. E, alle obiezioni di chi seguiva il confronto con partecipazione, puntualizzò: “Non ho detto che questo giovanotto stia mentendo. Ho detto che non posso credergli. C’è una differenza”. Al che Karski aveva allora consegnato la sua testimonianza in un libro di memorie, la cui prima edizione è del 1944. In seguito docente di Scienze Politiche a Washington, dopo la sua morte nel 2000 all’esterno del consolato polacco a Manhattan fu posta una statua a lui dedicata con una targa: “Il primo a informare gli alleati dell’Olocausto quando ci sarebbe stato forse il tempo per impedirlo”.
Sulla base di queste informazioni, il 29 giugno 1944 John W. Pehle, Executive Director del War Refugee Board Usa, aveva infatti chiesto al Deputy Secretary of War John J. McCloy di bombardare le linee ferroviarie che collegavano l’Ungheria alla Polonia, per impedire la deportazione degli ebrei magiari a Auschwitz. La risposta, del 4 luglio: “L’operazione non è praticabile. Potrebbe essere condotta solamente impiegando un considerevole supporto aereo che però, a tutt’oggi, è essenziale per il successo delle nostre forze impegnate in azioni decisive e comunque l’operazione sarebbe di dubbia efficacia”. George Orwell dedicò inoltre pagine acute al modo in cui l’eccesso di propaganda durante la Prima Guerra Mondiale aveva vaccinato le opinioni pubbliche anglo-sassoni contro le tremende accuse della Seconda. Insomma, per aver creduto alla storia fasulla dei tedeschi che tagliavano le mani ai bambini belgi, non si volle credere alla storia vera dei tedeschi che gassavano gli ebrei. Più che rivelare l’Olocausto, la liberazione di Auschwitz permise di poterlo denunciare senza che potesse sembrare propaganda di guerra inverosimile.
I militari sovietici liberarono anche altri campi che si trovavano negli Stati Baltici e in Polonia, oltre a quelli in territorio tedesco di Sachsenhausen e Ravensbrück. Furono invece gli americani a liberare Buchenwald, Dora-Mittelbau, Flossenburg, Dachau e Mauthausen, mentre gli inglesi arrivarono a Neuengamme e Bergen-Belsen. Auschwitz liberata dall’Armata Rossa è però rimasta talmente emblematica, che ancora su Roberto Benigni rimbalza l’accusa di “falso storico” a suo tempo lanciata da Mario Monicelli e dall’allora leader dei Comunisti Italiani Oliviero Diliberto per aver rappresentato il padre e il figlio di La vita è bella liberati dagli americani, invece che dai sovietici. Una accusa di manipolazione filo-Usa e anticomunista invero curiosa, nei confronti di un regista e attore il cui primo film si era intitolato Berlinguer ti voglio bene, e che il leader del Pci Enrico Berlinguer aveva addirittura “preso in collo” durante una famosa Festa dell’Unità.
Indubbia ruffianeria da Oscar a parte, Benigni ebbe buon gioco a puntualizzare che “il film non parla di Auschwitz, e infatti intorno al campo ci sono i monti, che ad Auschwitz invece non ci sono”. I monti della Valnerina, perché il campo di concentramento nel film è in realtà una vecchia fabbrica dismessa che fu riadattata come lager per le riprese e che si trova a Papigno, vicino a Terni. “Quello è ‘il’ campo di concentramento, perché qualsiasi campo contiene l’orrore di Auschwitz, non uno o un altro”, disse pure Benigni. E si può anche ricordare che il film è ispirato a uno zio della moglie di Benigni che era morto davvero a Mauthausen; come ricordato, liberata dagli americani.
Ma a proposito di Urss e Auschwitz, può essere invece interessante ricordare che Primo Levi fu escluso da ben trenta edizioni della Storia della letteratura italiana del comunista Natalino Sapegno e fu inoltre definito un “bugiardo” dall’associazione degli scrittori sovietici sull’assunto che “il lager non era quel luogo di sofferenza e di rassegnazione degli internati, ma un luogo dove si svolgeva un’eroica resistenza del proletariato prigioniero”: forse un timore di evocare il gulag. Anche questo tipo di cose contribuì a quella sindrome che Primo Levi descriveva come ricorrente incubo di narrare per non essere creduto. Sfociata nel finale suicidio.