A un anno e mezzo dal crollo del Ponte Morandi il governo non ha ancora scelto l’unica opzione di buon senso per risolvere il tema delle concessioni ad Autostrade per l’Italia. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha assicurato: «Non faremo sconti a nessuno». Per il capo politico del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio: «Si perdono i profitti dei Benetton ed è giusto, perché non hanno fatto quanto dovuto per mantenere quel ponte». Anche Alessandro Di Battista, al confine con l’Iran, spera che il Movimento «porti a casa la battaglia del secolo: la revoca delle concessioni ai Benetton». E il Partito democratico? Tentenna. La ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli chiede tempo per «lavorare per il bene dei cittadini che usano le autostrade tutti i giorni, è a loro che dobbiamo pensare». Il governo finora si sta comportando come un fattore a cui hanno venduto un ronzino. Ma invece di pretendere un cavallo migliore, come da contratto, è disposto ad andare a piedi portandosi i pesi sulle spalle pur di fare uno sgarbo al venditore.
L’ottava economia del mondo non si può comportare come l’asilo mariuccia, usando come arma di dialettica politica i 43 morti di una tragedia. «Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi chiedono e devono avere giustizia» ha detto Di Maio. Giusto, ma a farla ci penserà la magistratura non il Movimento Cinque Stelle o il Partito democratico. Nessuno, neanche il ministro degli Esteri si può arrogare il diritto di rappresentare il dolore di chi ha perso un proprio caro. La politica ha un altro compito: far sì che non accada più una cosa del genere. E soprattutto elaborare la soluzione più intelligente ed efficiente per farlo, costringendo chi ha fornito un cattivo servizio ad adeguarsi ad alti standard. Ovvero: ammodernare i ponti, i viadotti, le autostrade in gestione, aumentare gli investimenti, le assunzioni e la manutenzione.
Fermi lì, nessuno nega le colpe di Autostrade per l’Italia. Dal 2001 al 2017 il gruppo ha guadagnato 43,7 miliardi con i pedaggi ma ne ha reinvestiti meno della metà nella rete autostradale. Di questi 13,6 miliardi di euro sono serviti per ampliare o migliorare le opere. E la manutenzione? Dal 2000 al 2018 Aspi dichiara di aver speso 5,430 miliardi di euro, solo 196 milioni in più rispetto agli impegni di spesa previsti dalla convenzione. Negli ultimi anni si è visto che quella cifra concordata con lo Stato è troppo bassa per i lavori necessari. Anche la Corte dei Conti nella relazione del 18 dicembre 2019 ha fatto notare che c’è bisogno di «una maggiore effettività dei controlli, accompagnata da una continua verifica sugli investimenti» e invita a superare alcune inefficienze come «i modelli tariffari, molte clausole contrattuali particolarmente vantaggiose per le parti private, gli investimenti in diminuzione o sottodimensionati con possibili extraprofitti». Ecco, uno Stato serio dovrebbe partire da questi numeri e queste parole per risolvere il problema autostrade, lasciando stare le vittime del 14 agosto 2018, evocate troppo spesso con il solo risultato di far aumentare la rabbia dei loro cari.
Non a caso, la stessa Aspi un po’ per paura della revoca delle concessioni, un po’ per un esame di coscienza tardivo ha proposto un piano strategico per il quadriennio 2020-2023: 5,4 miliardi di euro di investimenti sulla rete autostradale per ammodernare gallerie, ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie e pavimentazioni (il triplo dei 2,1 miliardi spesi nel quadrienno precedente). Ma anche 1,6 miliardi di euro per la manutenzione (+40% rispetto al periodo 2016-2019) e la promessa di realizzare una piattaforma con un software di intelligenza artificiale per monitorare in tempo reale 1943 ponti e viadotti. Aspi promette nei prossimi quattro anni di ampliare di 30 km della rete autostradale e di assumere almeno mille tra ingegneri, addetti autostradali e tecnici.
Un buon piano per rimediare, ma non abbastanza. Se lo Stato vuole evitare che non accada più un Ponte Morandi ha un match point servito dalla stessa Aspi: pretendere che i miliardi siano 9 e non 7,5, le assunzioni 1500 e non mille, e pretendere, con buon senso, promesse maggiori. E pazienza se tra i costi del lavoro sostenUto, i miliardi dovuti all’Anas per il canone d’uso, le imposte pagate dallo stato e gli oneri finanziari a sostegno del debito il profitto di Atlantia sarà per un po’ di anni più basso. Questo sarebbe davvero il miglior modo per rivalersi su Autostrade per l’Italia. È con il diritto che il governo deve farsi valere, se necessario, anche chiedendo un passo in più rispetto a quanto previsto dalla convenzione.
Certo, si può fare un nuovo bando e rischiare di perdersi in un contenzioso infinito che rimanderebbe gli investimenti e la manutenzione, sempre più urgenti. Anche perché la compagnia assicurativa Allianz, tra gli azionisti internazionali di Autostrade per l’Italia, ha presentato alla Commissione Europea un esposto contro la modifica unilaterale dei contratti di concessione autostradale che il governo ha introdotto con il decreto Milleproroghe. Anche la nazionalizzazione delle autostrade sarebbe una scelta irrazionale, perché lo Stato dovrebbe accollarsi almeno altri 20 miliardi di euro a cui si dovrebbero aggiungere i costi per gli investimenti e la manutenzione. Altro debito su cui poi dovrebbe pagare gli interessi. E non è detto che possa fornire un servizio migliore al cittadino.
Solo 954 chilometri di autostrade degli oltre 7.500 sono gestiti direttamente dallo Stato tramite Anas. Tre esempi infelici di gestione: la mitologica Salerno-Reggio Calabria, esempio di cantiere a cielo aperto completato solo nel 2016, il raccordo anulare di Roma e la Palermo Catania. Proprio la gestione della A19 è stata criticata venerdì dal presidente della Regione siciliana Nello Musumeci. Ha detto che il servizio di Anas è inadeguato nel fornire la viabilità Palermo-Catania interrotta con continue deviazioni che limitano il passaggio dei mezzi pesanti. «È inconcepibile e irriguardoso che, per l’ennesima volta, l’Anas dimostri di non avere rispetto per la pazienza dei siciliani. Le nostre autostrade continuano a cadere a pezzi nella impotenza di chi dovrebbe assicurarne la piena efficienza».