All’inizio era una serie satirica. Una delle tante che bersagliava Hollywood, i suoi vizi e le sue stranezze, con l’originalità di affidarsi a un cavallo antropomorfo in un mondo dove convivono animali ed esseri umani (e si sposano anche, se è per questo). Poi – e ci ha messo poco – ha cominciato a volare alto. È così che BoJack Horseman, di cui sono usciti oggi gli ultimi e definitivi episodi, (con un finale costruito in corsa e fatto calzare a forza) è diventato l’esperimento più interessante fatto finora da Netflix.
Molto ha fatto l’ambientazione, cioè il mondo surreale in cui si muove il nostro cavallo-attore, diventato famoso negli anni ’90 grazie a una sitcom (intitolata Horsin’ Around) e che fatica a trovare nuove parti per tornare in auge. È popolato da figure eccentriche, sia umane che animali, che fanno il verso ai produttori, agli agenti e alla fauna (quella vera) del mondo del cinema e della televisione americana. Un universo che, all’inizo, era stato congegnato per inventare situazioni inverosimili (grazie anche a personaggi come Todd, l’amico che vive con lui domendo sul divano), mettere alla prova spunti creativi e far scattare le risate più o meno pungenti.
Poi, finito il rodaggio, arriva la svolta. Scompaiono le scene leggere e pirotecniche (BoJack che gareggia con il collega Mr Peanutbutter, un labrador, per conquistare Diane Nguyen e sotto l’effetto dell’alcol ruba per lei la “d” di Hollywood) e vengono sostituite da puntate più riflessive, profonde, immaginifiche e disperate. Come altro si può definire l’episodio “sott’acqua”, virtuosismo quasi del tutto privo di dialoghi, dove l’unica comunicazione che conta, quella tra BoJack e Kelsey, viene cancellata dall’umidità dell’oceano?
Entrano in gioco le difficoltà degli affetti (ed episodio da cineteca è Free Churro, un monologo in forma di stand-up tenuto da BoJack sulla bara della madre) le malattie senili (Time’s Arrow, dove i disturbi della memoria di Beatrice, madre di BoJack, diventano un groviglio di segni che divora le facce e sconvolge i ricordi) fino al disastro della tossicodipendenza (su questo, si consiglia di (ri)vedere la puntata The Showstopper). Il mondo surreale di BoJack Horseman, per paradosso, diventa pretesto per mettere in scena le dipendenze, le ansie, la depressione. Più ancora, sembra trasformarsi in una meditazione sul rimorso e sulla redenzione, che non appare mai raggiungibile. Qui le soluzioni non risolvono, le aspettative vengono frustrate, si parla ma non si comunica. «Siamo tutti guasti, in generale. E non esiste una cura», così sintetizza Raphael Bob-Waksberg, l’ideatore della serie. Doveva essere una tranquilla presa in giro del jet-set hollywoodiano diventa, forse, la chiave per la lettura del nostro tempo.
Il successo e le premiazioni non hanno impedito a Netflix di chiudere la baracca. La decisione, arrivata in fase di produzione, ha imposto una revisione della scrittura degli ultimi episodi. Per chiudere le storyline, si è scelto di seguire lo spunto del giallo attraverso l’indagine di alcuni giornalisti sulla morte misteriosa dell’amica del protagonista Sarah Lynn (gli spettatori sanno come è andata la storia e soprattutto che BoJack, sulla questione, ha mentito) fino ad arrivare alla resa dei conti. Lo scarto, rispetto alle puntate precedenti, è netto: meno spazio agli altri personaggi, più attenzione ai processi mentali e psicologici di BoJack. Con un finale che chiude a metà.
Anche perché, nonostante il sipario che cala su Hollywoo (la “d”, appunto, era stata rubata da BoJack anni fa) e sui personaggi più assurdi ma al contempo reali che si siano mai visti in tv, sarà molto difficile che BoJack venga dimenticato.