Problemi veriIl grande guaio del governo si chiama Ilva, ma anche Alitalia, Autostrade e Pop Bari (non Luigi Di Maio)

I dossier economici e le nomine nelle società partecipate e negli enti pubblici sono le priorità dell’esecutivo e del Movimento 5 stelle a guida Conte-Grillo. Il passo indietro del grillino? Governo e pentastellati se ne faranno una ragione, se vogliono durare

Nel vortice che ha inghiottito il governo giallorosso dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da leader politico del Movimento 5 stelle c’è la possibilità non troppo remota che il peggio debba ancora venire. L’agenda di governo promette, infatti, mesi di fuoco per l’esecutivo guidato dal premier Giuseppe Conte, tali, secondo voci vicino ai pentastellati, da far passare l’uscita dell’ex pupillo di Grillo come un passeggero raffreddore di stagione. Il guaio del governo si chiama Alitalia, Autostrade, Ilva e Pop Bari, e non Luigi Di Maio. Il grande equivoco nel pensare che il passo indietro del ministro degli Esteri possa essere l’elemento di crisi capace di far saltare il banco è frutto di un termometro politico difettoso non in grado di misurare le priorità di un calendario governativo infarcito di clausole, scadenze e compromessi da raggiungere.

In ballo, salvo uno scollamento insanabile dopo le elezioni regionali, c’è il mantenimento della capacità produttiva dell’acciaieria Ilva e, dal punto di vista del governo, l’esito della trattativa con Arcelor Mittal. Giuseppe Conte potrebbe incontrare i vertici di Arcelor Mittal a Davos, per discutere su quale tavolo, magistratura o parlamento, la partita debba essere giocata: il gruppo franco-indiano ha confermato la cassa integrazione per 3.500 dipendenti e un eventuale rilancio legato esclusivamente alla possibilità di mantenere in funzione l’altoforno (ad oggi acceso grazie al ricorso accolto dal Tribunale del Riesame). Il collo di bottiglia verso cui la multinazionale ha spinto e sta continuando a spingere i vertici del governo pone l’accento sulla difficoltà – comunque vada a finire – di trovare un dopo Mittal pronto ad assorbire le criticità della struttura e allo stesso tempo non sottostare alla dittatura di un player privato che gioca con la vita degli operai. Non contando che la linea disfattista, che vedrebbe l’impianto chiudere i battenti in caso di ritiro della società, conta una folta maggioranza di contrari tra le fila di Italia Viva e dello stesso Pd, pronti a correre ai ripari con strumenti d’intervento pubblici.

Dopotutto, non ce ne voglia Di Maio, in una situazione di scacco il governo sta già arrancando. Con Atlantia la rissa a distanza ha preso contorni tragicomici. Gli attori in campo, con Renzi pronto a dare battaglia contro la revoca e l’uscente leader grillino reduce da una crociata anti Benetton, hanno aperto un’ulteriore falda. Nei giorni scorsi il colosso assicurativo tedesco Allianz, tra gli azionisti internazionali di Autostrade per l’Italia, ha presentato alla Commissione europea un esposto contro la modifica unilaterale dei contratti di concessione autostradale introdotta dal governo italiano con il decreto Milleproroghe, che apre la strada all’ipotesi di revoca della concessione alla società. Il premier Conte, tuttavia, avrebbe ormai definito il suo percorso nella direzione della pena massima, facendo orecchie da mercante nei confronti di quei 20 miliardi di indennizzo che il governo dovrebbe sborsare in caso di rescissione. Oltre a tenere sul chi vive l’intero governo, una revoca secca della concessione porta con sé il presupposto di un governo dalla florida economia e con risorse tali da farsi carico di tutto il pacchetto autostrade; la realtà, che forse emergerà nel dopo Di Maio (vedi borse dopo l’annuncio del suo passo indietro), è che, anche in questa stagione, le casse dello Stato non hanno soldi da investire per nuove costruzioni e ampliamenti, mentre in casa Atlantia la faccenda capitali è pura questione di accordi e investimenti programmati. Favorita è quindi la formula per cui il governo accetterà il trittico di proposte, investimenti-controlli-tariffe low cost, di Atlantia pur di portare a termine, sulla base delle confessioni dei vertici di Ferrovie delle Stato, la newco per salvare Alitalia. Servono 300 milioni per completarla, ovvero il 40% del capitale, e la holding dei Benetton, non proprio casualmente, possiede Aeroporto di Roma, dove la compagnia di bandiera vale il 29% dei ricavi aeronautici e porta con sé il 40% del traffico passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino.

Tempi incerti, per giunta, aleggiano anche su Alitalia. Il prestito da 400 milioni di euro concesso dallo Stato, che andrà restituito, con capitale e interessi, “entro sei mesi dalla erogazione”, è vincolato dalla vita che avrà la cordata capeggiata da Fs, per il momento ferma al palo proprio per il contenzioso con Autostrade e una riduzione dei costi della compagnia aerea che porterebbe i toni della maggioranza a livelli insostenibili. Tagliando probabilmente otto aeromobili e, di conseguenza, procedendo con l’esubero di circa mille persone, la compagine dietro Matteo Renzi e le pressioni sindacali successive renderebbero la vita del governo un vero inferno in terra.

L’Aula della Camera ha dato il via libera al decreto per il salvataggio della Banca popolare di Bari, con 412 voti a favore, nessun contrario e 28 astenuti. Il testo, “recante misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento”, passa ora al Senato e dovrà essere convertito in legge entro il 14 febbraio. Meno problematico a prima vista questo salvataggio, con il governo che si è fatto carico di un onere per 900 milioni di euro attraverso un aumento di capitale del Mediocredito centrale. Le difficoltà? Saranno future, quando spetterà al premier Conte e ai suoi colleghi capire i compiti della nuova banca a capitale prevalentemente pubblico.

Come dimenticarsi, poi, del trait d’union “ideologico” delle nomine nelle società partecipate e negli enti pubblici. Tra Inps e Anas il governo Conte Bis dovrà barcamenarsi nel valzer delle 400 poltrone, programmato a cavallo tra il 2019 e il 2020. L’accordo ancora non c’è, come del resto, ironia della sorte, non basterà una testa che salta a far rinvenire un Movimento 5 stelle che ormai si è perso, da tempo, nei palazzi del potere.

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