L’ultima canzone di Mahmood, Rapide, che sta un po’ per lacrime e un po’ per oggi ci sei e domani non più, un po’ per ti amo da sempre e un po’ per ti conosco da mai, un po’ per incancellabile e un po’ per intercambiabile, parla di lui che fa la pace, poi la guerra, poi un cessate il fuoco, poi un vertice e poi di nuovo la guerra con un tradimento. Di lui che non sa se essere più incazzato o più disperato, più amareggiato o più mortificato, più deluso o più disilluso, più tenue o più intenerito. Di lui che non sa se vuole vendicarsi o dimenticare. Di lui che non sa se voltare pagina sia una vendetta o un perdono. Nessun vero contrasto, nessun abisso di dolore. Lo schifo dell’amore come lo facciamo adesso e delle relazioni come le facciamo adesso è che quando finiscono non ci sorprendiamo, non soffriamo, non piangiamo: sentiamo soltanto un enorme fastidio. Ci diciamo che, in fondo, ce lo aspettavamo. Ci diciamo che, porca miseria, non sentiamo nessun dolore – eppure quello ci piaceva tanto, ci stavamo proprio bene, però hai visto che cos’ha fatto, hai visto quanto s’è comportato come tutti gli altri, quanto è come tutti gli altri, maledizione, lacrima, dai, scendi, su, scendi, dimostrami che almeno gli ho voluto bene.
È una canzone, Rapide, che parla del male che fa non riuscire a soffrire per una perdita. Naturalmente, a un primo ascolto o anche a dodici ascolti però molto superficiali, sembra una banale canzone su uno che si strugge per aver perso un amore non ricambiato e non sentito davvero o, peggio ancora, ricambiato e sentito con fatalismo, con sciatteria, senza esclusiva – «io sono un po’ strano, ti amo solo quando veniamo»; «Mi ami? Dimmi di no, tradire fa ridere».
Bel pezzo, Mahmood, bravo come sempre. Bravissimo. E che tempismo, visto che il testo è la migliore sintesi del discorso di congedo di Luigi Di Maio da capo politico del Movimento Cinque Stelle, e il video sembra girato nel Tempio di Adriano quando tutti sono andati via e il ministro è rimasto da solo. Ci sono le stesse colonne, le stesse luci un po stroboscopiche e un po’ mistiche, la stessa contrizione sulle facce dei figuranti, solo non si vedono i due leocorni e la raffinata tartaruga gigante di bronzo sulla quale Mahmood canta, né Di Maio (grazie al cielo) indossa una canottiera in mezzo a un corpo di ballerini sudati e molto belli di una bellezza molto genderfluid.
Mollare è bello, se sai come farlo. Perché ostinarsi, perché combattere? Se vedi la malaparata, ritirati. Chiusa una porta si apre un portone. Eccetera. Questa settimana il New York Times ha pubblicato una serie di pezzi (ventuno, per la precisione) che erano un racconto, in prima persona, di dimissioni. Da un amore, dalla propria lavanderia di fiducia, dal sesso, da un’amicizia, da un contratto, dalla fede, persino dalla skin care. Tutte cose molto faticose, a volte troppo faticose. Se un’attività, o un credo, o una persona, o un impiego costano troppa energia e, soprattutto, non la ripagano, dimettetevi e avrete salva la pelle (è il solo modo per salvarla, altro che skin care e punturine).
C’è, in tutto il discorso di Di Maio che se fosse stato scritto da Mahmood sarebbe stato un poco più toccante, e in tutta la canzone di Mahmood che se fosse stata scritta da Di Maio avrebbe fatto schifo, un insistito malriuscito tentativo di dirsi addolorato e però pure convinto di essere nel giusto, di dirsi soddisfatto per il lavoro compiuto e però pure dispiaciuto di doverlo lasciare a metà. L’unica disperazione (no, forse è troppo, diciamo l’unico dispiacere) che realmente trapela nel cantico del dimissionario non per piacer suo ma per far piacere a Rousseau, è: come faccio a dissimulare che questo amore appena nato è già finito? Come faccio a fingermi scosso? Come faccio a sembrare Ettore? Come faccio a trasmettere un dolore che non provo e a non lasciar trasparire questo stupendo e rilassante sollievo che mi attraversa la schiena?
Povero Di Maio. E pensare che ci ha messo un mese per scrivere il suo addio. Un mese! Un rigo al giorno? Due? Tre? Un mese per dirci che il Movimento Cinque Stelle è un «progetto visionario» di quelli che nessuno può combattere dall’esterno, ma che possono venire distrutti dalle serpi in seno, le stesse che hanno fatto in modo che lui prendesse la porta ma non il largo. «Non è finita! Saremo ancora l’incubo degli analisti politici!». Un programma bellissimo, e molto appassionante. Chi non darebbe il paese, la casa, la macchina, un figlio a un politico che si pone come obiettivo quello di far tremare gli editorialisti ai quali, peraltro, il suo partito lavora affinché venga tolto il lavoro? Di Maio, che passione, e che combattiva prospettiva per il futuro – allineatissimo al Mahmood che fa: «Dimmi perché mi hai fatto scendere da una Mercedes e prendere un treno per che ne so».
Scenderemo nel che ne so, muti.
«Infinita stima, ed infinito amore», ha scritto Virginia Saba su Facebook, condividendo il discorso del suo Ettore in calzamaglia. Prima la stima, come tra Pina e Fantozzi, e poi ci mettiamo pure l’amore, giusto perché siamo in pubblico e abbiamo un profilo da mantenere, non vorremo mica privare gli italiani della favola del parlamentare più giovane della storia e poi anche ministro degli Esteri che bacia la sua amata tra gli scoiattoli in un parchetto di Roma centro. Ma in fondo quello è il passato. Dice Mahmood, «Non ci pensare, il ricordo è peggio dell’Ade».