Liberato dal peso della guida politica del Movimento Cinque Stelle e della campagna elettorale in Emilia Romagna, Luigi Di Maio tornerà a dedicarsi al suo ministero per rilanciare il dossier a lui più caro, il commercio estero. Appena arrivato alla Farnesina, il leader dei 5 stelle aveva subito ottenuto il trasferimento della delega, che apparteneva allo Sviluppo economico. L’obiettivo, ragionava il suo entourage, era offrire a Di Maio la possibilità di lavorare sui “suoi” temi e raggiungere risultati facili da comunicare: la vittoria di un grande appalto, l’aumento dell’export verso un paese ancora poco battuto dalle aziende italiane, il buon rapporto con gli imprenditori. Poi, tra crisi interne al Movimento Cinque stelle e crisi geopolitiche complesse, il commercio è passato in secondo piano. Di Maio ha deciso di ripartire da qui, anche per allontanarsi da dossier faticosi, lenti e intricati come quello libico. Il programma, raccontano dalla Farnesina, è compiere un lungo tour in due regioni considerate strategiche per l’export italiano, il Sud Est asiatico e il Sud America. Il ministro degli Esteri vorrebbe accompagnare le aziende italiane che partecipano ad appalti rilevanti, in particolare nel settore delle infrastrutture, e mostrare che grazie al suo impegno l’Italia è capace di «fare sistema», come spiega una fonte della Farnesina: «Di Maio segue molto le crisi internazionali degli ultimi tempi, ma ha capito che non sono dossier che si risolvono in poche settimane, hanno bisogno di molto tempo e molta attenzione. Anche di passaggi a vuoto, incontri che sembrano poco utili. Sul commercio invece è più semplice rivendicare risultati, se vinci una gara d’appalto importante vinci una gara d’appalto importante».
Il commercio estero rievoca la questione delle deleghe: è nota la rivalità tra Ivan Scalfarotto e Manlio Di Stefano, che vorrebbero ottenere un’investitura formale in tal senso e condividere con il ministro eventuali successi. I due sottosegretari lavorano da tempo per convincere Di Maio, indeciso tra la fedeltà grillina di Manlio Di Stefano e la competenza di Ivan Scalfarotto, che ha già trattato la materia quando era al Ministero dello Sviluppo Economico. Per ora però, nessuna scelta in vista: «Al momento non è in agenda», spiega un’altra fonte, che aggiunge: «Una soluzione potrebbe essere spacchettare le competenze e accontentare entrambi. Tanto se sono scontenti che fanno, si dimettono?».
Luigi Di Maio dovrà affrontare anche un’altra scelta importante per gli equilibri interni al ministero. Ettore Sequi, ex ambasciatore a Pechino e oggi suo capo di Gabinetto, non ha mai nascosto di volere la sede di Bruxelles, e chiudere la carriera da rappresentante permanente presso l’Unione europea. Secondo diverse fonti ben informate tra i due ci sarebbe un patto non scritto: Sequi ha accettato di aiutare Di Maio come capo di Gabinetto per i primi mesi di mandato con la promessa di sostituire Maurizio Massari, attuale ambasciatore a Bruxelles, in scadenza in primavera. Sequi è la prima tessera di un domino che comprende l’ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio, giunto al suo quarto e ultimo anno negli Stati Uniti (lascerà l’America dopo le elezioni) e probabilmente Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina. Belloni è stata nominata nel 2016 dal governo Renzi: dal 1987 si sono succeduti dieci segretari generali e soltanto due di essi hanno occupato la carica per più di quattro anni; visto il giro di incarichi è legittimo immaginare che Belloni non sarà il terzo. In prima fila per sostituirla c’è Sebastiano Cardi, attuale direttore dell’Ufficio politico ed ex rappresentante permanente presso le Nazioni Unite. Quattro caselle che potrebbero liberarsi e che attirano la giusta ambizione degli ambasciatori di grado, al momento 23, e dei ministri plenipotenziari che hanno raggiunto l’anzianità per aspirare alla nomina.
Su tutte queste scelte Di Maio avrà certamente voce in capitolo, ma dopo le sue dimissioni gli equilibri politici interni al governo sono cambiati, e d’altronde le nomine si ratificano in Consiglio dei ministri: «Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico e il risultato elettorale in Emilia Romagna, il Pd non lascerà queste decisioni in mano al ministro: adesso il peso del Pd è maggiore», spiega un diplomatico di lungo corso. Ecco perché Di Maio si ripresenterà a marzo agli Stati generali o su Rousseau o come si chiamerà la procedura imposta dalla Casaleggio per riprendersi il ruolo di capo politico: può essergli molto utile anche in queste partite di potere.