Uno dei paradossi della grande bonaccia nazarena è che zitto zitto quatto quatto Michele Emiliano si appresta a stravincere le primarie un po’ farlocchette nella sua Puglia, domenica 12 gennaio. «Farà freddo ma andate a votare», ha scongiurato Emiliano, timoroso che una bassa affluenza possa in qualche modo delegittimare la sua scontata vittoria e accusando «i renziani» di sabotare l’appuntamento. Ad ogni modo, il Governatore pugliese punta a spianarsi la strada, con la legittimità di una seppur mesta investitura popolare, alla competizione di primavera per confermarsi alla guida della regione che governa da 4 anni con forte personalità e ancor più forti perplessità da parte di molti. Scontato dunque il risultato, vedremo quale sarà l’affluenza. Ma “Michele” sta già guardando oltre.
Il magistrato barese, a cui un anno fa il Csm, con un provvedimento disciplinare, impose giustamente di scegliere fra giustizia e politica sciogliendo un nodo gordiano che altrimenti egli si sarebbe ben guardato dal rimuovere, ha lasciato a suo tempo il Pd e anzi col Pd renziano entrò tante volte a gamba tesissima. Ma oggi che Renzi è altrove il potente Michele si è ripreso tutto o quasi della vecchia e nuova Ditta: già, perché lo appoggia anche un homo novus come il sindaco di Bari Antonio De Caro, pur vicinissimo al renzismo che fu, e con lui tutto quel che resta del Pd a partire dal segretario regionale, Marco Lacarra, e numerosi parlamentari pugliesi con poche eccezioni. La più importante delle quali è quella di Dario Stèfano, ex vendoliano, senatore dem, apertamente schierato contro Emiliano. Ma a scendere in campo contro il presidente pugliese ci sono solo figure di peso relativo, fuori dalla possibilità di vincere: Elena Gentile, Fabiano Amati e Leonardo Palmisano, i primi due noti esponenti del Pd pugliese. Candidati onesti che di fatto legittimano primarie assolutamente non fondate su una competizione reale.
La realtà è piuttosto semplice, lo stesso ras pugliese (due volte sindaco di Bari, una volta Governatore) disse a commento del provvedimento disciplinare del Csm: «Sinceramente a me non è che la tessera mi cambia nulla. Quindi continuerò a essere il riferimento, credo, della gran parte della maggioranza degli iscritti del Pd della Puglia».
Il punto infatti non è la tessera. Il punto è se sia normale che uno governi il capoluogo e poi la Regione per un totale di 20 anni. Il fatto la dice lunga sulla incapacità del Pd meridionale di rinnovarsi da sé: in Calabria per esempio c’è voluta la magistratura e poi direttamente Zingaretti per scegliere un altro candidato. Il caso Emiliano ha diviso anche i due ministri pugliesi, con Teresa Bellanova pronta a bocciare il continuismo emilianesco (e qualcuno aveva pensato a lei che però ormai è ministro) e il dem Francesco Boccia, altrettanto pronto a dichiarare che Il Governatore «è il candidato ideale». Piccolo ma significativo esempio della distanza fra Italia viva e Pd.
Ma a Roma questa storia pugliese non interessa molto. Emiliano è stato un gran rompiscatole? Sulle trivelle, sulla Xylella, sull’Ilva soprattutto, ha assunto posizioni in conflitto con il Pd? Governa con metodi spesso discutibili e con atteggiamenti da ras mediorientale? E chi se ne frega: lui è il più forte, l’unico in grado di vincere le regionali di primavera – tanto più se il cavallo della destra dovesse essere uno sfiancato Raffaele Fitto. Se vince, vince il Pd; se perde, perde lui. E al Nazareno questo basta e avanza.
E anche questa è una metafora del misto di cinismo e inerzia che caratterizza tanti aspetti dell’attuale gestione nazarena. Ispirata al vecchio motto quieta non movere, frase pronunciata dall’indolente Maestro di Vigevano nel film di Petri impersonato da Alberto Sordi. Il che spiega molto, o tutto, della grande bonaccia nazarena. Almeno finché non si alza il vento.