“E insomma viene fuori che l’uomo che ho passato cinquant’anni della mia vita a credere fosse mio padre non lo era”. Elizabeth Wurtzel aveva un talento per gli incipit. Non solo i suoi, le piaceva citare il più famoso attacco di Marguerite Duras, L’amante: “Presto fu tardi nella mia vita. A diciotto anni era già troppo tardi”. Presto, per Lizzie fu intorno ai ventisei, l’età alla quale Orson Welles fece Quarto potere e lei scrisse il libro col quale divenne la ragazza nevrotica più famosa della generazione X, quella che si descriveva (era la prima metà degli anni Novanta, un’altra epoca: scrivere le proprie memorie era ancora una cosa da scrittori, non l’hobby di qualunque passante con sintassi zoppicante) come la giovane americana che tenta di domare la depressione con il Prozac, la capsula che all’epoca veniva chiamata bye-bye blues, e la cui leggenda diceva sapesse liberarti retroattivamente d’ogni infelicità, infanzia compresa. Fu un caso editoriale e una che la critica amava stroncare, e lei era di quelle con abbastanza personalità da crogiolarsi nelle critiche: molti anni dopo, come bio su Twitter avrebbe scelto “Sylvia Plath con l’ego di Madonna”, una citazione da una recensione d’epoca. (Prozac Nation in Italia venne tradotto come La felicità difficile: immagino le riunioni editoriali in cui qualcuno dice che non si può mettere un marchio depositato in copertina, poi ci dicono che facciamo pubblicità).
Sulla copertina del libro successivo, Bitch, c’era Wurtzel nuda che alzava il dito medio. Di nuovo: 1998, molto prima che fare gestacci in pubblico fosse una cosa non solo da attori ubriachi o da rockstar drogate, molto prima che si denudassero tutte; decisamente prima che le scrittrici rispettabili trovassero sensato denudarsi in copertina (certo, Simone de Beauvoir s’era fatta fotografare nuda, ma io vi giuro che ogni volta che ho proposto «io, nuda» come soluzione ai dubbi grafici d’una mia copertina non sono stata presa sul serio: ci vuole talento anche per convincere un editore che non stai scherzando). Non è un caso che nude mi vengano in mente solo lei e Simone: Bitch è stato per le ragazze della generazione X quel che L’età forte era stato per le nostre madri. (Se avete mai parlato con un intellettuale americano sapete quanto in media sia nulla la loro conoscenza di ciò che non è americano: Wurtzel aveva con le francesi una consuetudine inspiegabile per una che neanche aveva buoni voti a scuola; fu da lei che lessi la prima citazione di Yasmina Reza, molti anni prima che Adelphi ne facesse un elemento d’arredo irrinunciabile per il ceto medio riflessivo italiano).
In Italia Bitch non l’hanno mai tradotto, forse perché non ebbe la scandalosa risonanza di Prozac Nation (non c’è ex ventiseienne che, passato il debutto, sia all’altezza del proprio Quarto potere), o magari perché gli editori temevano che le lettrici non fossero pronte per la scoperta d’un femminismo non noioso e non trombone. Arcana pubblicò uno spin-off, la cui esistenza forse fa di Lizzie la Chimamanda degli anni 90: una di cui si poteva monetizzare ogni avanzo. Un libretto di regole sagge e spiritose, The Bitch Rules (Sono una ragazza meravigliosa: coi titoli edulcorati non facciamo progressi), che è stupefacente perché, scritto da una Wurtzel poco più che trentenne, è il libro d’una cinquantenne. È il compendio di tutte le cose di cui da adulte pensiamo «ah, se solo l’avessi capito prima», e lei le aveva capite in anticipo (non che sia servito a niente: dopo il Prozac venne il Ritalin, sulla dipendenza dal quale scrisse il suo memoir da trentaquattrenne, Vertigine; capire la vita non serve a niente: neanche a vivere). Adesso, The Bitch Rules contiene tutte regole che non c’è bisogno qualcuno mi elenchi (“Mangiate i dolci”, “Viaggiate leggere”, “Trovatevi un lavoro, guadagnate i vostri soldi e mantenetevi da sole” – quest’ultima ritenuta ancora troppo sovversiva nei dibattiti sul femminismo); ma vent’anni fa era roba mai sentita (per dire: ancora non si usavano i trolley), e faceva l’effetto dirompente che sempre fa cambiare angolazione sulle cose piccole.
Quando otto anni fa morì la migliore nell’illuminare le piccole cose, Nora Ephron, c’era un affollamento di scrittori e artisti che avevano ognuno una storia d’amicizia con cui testimoniare la loro intimità con la defunta. Wurtzel tacque qualche giorno, poi pubblicò il più eloquente dei ritratti. Era la foto dell’unico contatto che avessero mai avuto: l’editore aveva chiesto a Ephron un blurb, una frase di lodi per la quarta di copertina, per Prozac Nation. Nora aveva scritto a Lizzie dicendole che l’aveva letta, la trovava brava e divertente, ma «non concedo frasi, mi sono sfilata dal business delle frasi anni fa, quando il mio veterinario ha scritto un libro. Non che voglia appaiarti al mio veterinario». Chi ha avuto la fortuna di conoscere Nora Ephron la riconobbe – in quella sbrigatività non scortese, in quella indisponibilità disponibile (il biglietto si chiudeva dicendo di chiamarla se avesse voluto scrivere una sceneggiatura) – molto più che in tanti stucchevoli articoli che ostentavano confidenza. Ci voleva l’occhio di una scrittrice, per capire l’istantanea efficace (chiedo scusa per la sovrabbondanza di figure retoriche).
Gli ultimi anni di Wurtzel erano stati sconclusionati: si era iscritta a Legge, si era messa a fare l’avvocato, poi aveva deciso di scrivere per i giornali, poi aveva pubblicato un ebook sulla Costituzione americana, Creatocracy, che non ho mai letto ma per fortuna avevo subito acquistato: sono sicura che l’autrice sarebbe d’accordo sull’impresentabilità di scaricare Ziggy Stardust il giorno in cui muore David Bowie. E poi le hanno trovato un cancro al seno.
L’ha affrontato con l’aggraziata tempra di una che era stata esibizionista ben prima che l’esibizionismo diventasse la cifra media dell’umanità. Si è sposata in bianco; ha pubblicato molte foto col suo cane; ha detto che avere il cancro al seno era una figata perché ti rifanno due tette da spogliarellista; ha scoperto che suo padre non era suo padre e ci ha scritto un pezzo di gran successo sul New York Magazine; ne ha scritto un altro su Beto O’Rourke (“Fisso il soffitto e rifletto sul fallimento della generazione fallimento”: ve l’avevo detto che ci sapeva fare con gli incipit) e su come la generazione X non avrebbe mai votato per un proprio coetaneo (quarantenni che sono insofferenti verso i quarantenni al potere: diceva Nora Ephron che, se sei brava, quando parli delle piccole cose parli di noi – anche se non credo intendesse “noi italiani”).
Poi un giorno ha scritto che, se qualche editore voleva farle fare un libro sulla storia di suo padre che non era suo padre, avrebbe fatto meglio a sbrigarsi: non aveva molto da vivere. Il suo splendore era sempre stato la capacità di essere lieve nella drammaticità, frivola dov’era ovvio aspettarsi la lagna, e quindi anche quella volta non sono scattati i funerali da viva che ci sono di solito in questi casi, quando una persona nota ha una malattia terminale nell’era dell’esibizionismo strutturale. Ha continuato a pubblicare foto col cane, con la maglietta di Beto, con cappelli da merenda alle Dodici Querce, con Bruce Springsteen (una volta aveva detto che il suo passatempo era portare gente nei camerini di Bruce, e io l’avevo invidiata più che per quel nudo in copertina: una regola di Sono una ragazza meravigliosa era “Siate splendide”, e lei lo era con la ferocia di chi, avendo un aspetto qualunque, decide di comportarsi come se fosse la bella del ballo). Poi ieri è morta. Il cancro ha metastatizzato al cervello e poi al midollo, e quel libro sul millantato padre non l’ha mai scritto. A 52 anni era già troppo tardi.