La decisione di presentare in Puglia un candidato alternativo a Michele Emiliano, annunciata in questi giorni da Matteo Renzi, segna una novità significativa rispetto alle scelte compiute finora dai leader del centrosinistra, Renzi compreso. E non solo in Puglia. Di fronte ai campioni del populismo locale, specialmente nel mezzogiorno, non uno dei passati leader della sinistra riformista, garantista e liberale si è infatti mai sognato di dire una parola che non fosse grazie, prego o per favore.
«Su Tap, Ilva, sanità, Xylella, popolare di Bari Emiliano ha idee opposte alle nostre. Sostenere le sue idee significa negare ciò che noi siamo. Ecco perché Italia Viva appoggerà un candidato diverso: Emiliano e Fitto sono il passato. La Puglia merita un futuro». Così scandisce, ora, Renzi. Rilanciato e ritwittato dai più-europeisti di Benedetto Della Vedova e dai calendiani di Carlo Calenda, che già prospettano una candidatura comune.
Restano due problemi. Il primo è, diciamo così, di carattere personale. Il retweet di Calenda era accompagnato infatti da queste parole: «Matteuccio bello però tocca che rispondi al telefono se vogliamo fare questa roba. Che devo fare, chiedo intercessione a Obama? Su diamoci una mossa». Come appello alla mobilitazione si può certamente fare di meglio.
Il secondo problema è che idee come quelle che Renzi attribuisce a Emiliano sono senza dubbio contrarie a ogni possibile declinazione dei concetti di sinistra riformista, liberale e garantista, comunque intesi e come nel corso del tempo li hanno interpretati i diversi leader del centrosinistra, dallo stesso Renzi a Massimo D’Alema, passando per Piero Fassino, Pier Luigi Bersani e Nicola Zingaretti; ma idee come quelle il presidente della Puglia ce le aveva anche prima, ce le ha sempre avute e le ha sempre orgogliosamente portate avanti. ll che non ha impedito a D’Alema, Fassino, Bersani, Renzi e Zingaretti di sostenerne la candidatura a qualunque carica (sempre gentilmente ricambiati, ovviamente). E lo hanno fatto, al di là delle dichiarazioni di circostanza, sulla base di un ragionamento che non dovrebbe suonare così originale, quando parliamo dei rapporti tra riformisti e populisti: che altrimenti si perde. Elezioni, congressi, primarie. Che si trattasse delle elezioni per il Comune di Bari del 2004, a cui il centrosinistra pugliese, cioè D’Alema, candidò Emiliano per la prima volta (ricandidandolo e rivincendo nel 2009); o delle regionali pugliesi del 2015, con il beneplacito del segretario Renzi; o delle primarie vinte nel 2012, col sostegno di Emiliano, da Pier Luigi Bersani; o delle primarie vinte nel 2013, sempre col sostegno di Emiliano, da Renzi; la parola d’ordine era ancora e sempre una sola, categorica e impegnativa per tutti: vincere, e basta.
Molto si è scritto, specialmente a destra, sull’opportunità di quella prima candidatura di Emiliano a sindaco di Bari, nel 2004, trattandosi proprio del pm che aveva indagato sulla missione Arcobaleno voluta dal governo D’Alema. Molto meno a proposito del fatto che una delle prime comunicazioni del neoeletto presidente dell’Assemblea del Pd, Paolo Gentiloni, all’indomani dell’ultimo congresso, sia stata proprio la decisione di consentire a Emiliano di partecipare alle riunioni della direzione del partito in qualità di «invitato permanente». Decisione con cui si certificava la finzione delle sue dimissioni dal Pd – «scelta dolorosa ma inevitabile», come la definì lui, dopo l’avvio di un procedimento disciplinare del Csm – dal momento in cui non aveva nessuna intenzione di dimettersi da magistrato, essendosi messo semplicemente in aspettativa. Dunque si è dimesso dal Pd, e da nient’altro, anzi continua a ricandidarsi a tutto, e alla fine della fiera la dolorosa scelta si riduce al fatto che, invece di essere un membro della direzione del Pd, è un «invitato permanente» alla direzione del Pd. A proposito di separazione dei poteri, regole e garantismo.
Dunque ben venga lo scatto d’orgoglio dei riformisti, che per la prima volta scelgono di affrontare apertamente il populismo che hanno a lungo incubato, per usare un termine tornato recentemente di moda. La tragedia nazionale del populismo pugliese, dall’Ilva alla Xylella, meriterebbe un appello alla costituzione di brigate riformiste internazionali, per andare a combattere il fenomeno lì dove ha fatto più danni, ben prima dei cinquestelle. Nella speranza che non sia ormai troppo tardi, per la Puglia e per l’Italia.
La lunga storia qui sommariamente riepilogata dimostra però che la principale responsabilità di questo stato di cose non è di chi, come Emiliano, ha legittimamente portato avanti le sue idee, ma di chi finora ha preferito vincere sposando le idee degli altri, piuttosto che rischiare di perdere difendendo i propri principi. E così ha finito per vincere qualche battaglia, perdendo sistematicamente la guerra. Una lezione su cui farebbero bene a riflettere anche nel Partito democratico.