Escludere dalla normativa europea sugli aiuti di Stato il ricorso delle aziende ai fondi per la formazione continua dei dipendenti. La richiesta è arrivata inizialmente da Fondimpresa, uno dei principali fondi interprofessionali per la formazione continua, insieme a Cgil, Cisl e Uil. E in un momento in cui, tra quarta rivoluzione industriale e transizione ecologica, diventa sempre più necessario ricorrere alla riqualificazione di migliaia di lavoratori, alla proposta si stanno accodando diverse imprese – non solo della manifattura ma anche dei servizi – e pure diversi europarlamentari, dal Pd alla Lega. «Per la formazione dei lavoratori la norma sugli aiuti va ripensata», ha scritto la Dem Patrizia Toia sul Sole 24 Ore. E all’appello si è unita pure Isabella Tovaglieri, eurodeputata del Carroccio.
Ad oggi, in Italia gran parte delle risorse per la formazione arriva dai fondi interprofessionali istituiti nel 2000. La legge 388 stabilisce che le aziende possono scegliere di destinare la quota dello 0,30% dei contributi versati all’Inps – il cosiddetto “contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria” – a uno di questi fondi. Sono le imprese a scegliere il fondo cui fare riferimento. Se poi non indicano nessuna scelta, il versamento va ad un fondo Inps. Le singole imprese possono poi scegliere i corsi predisposto dai fondi, in modo da assicurare ai propri dipendenti la formazione più utile.
Il sistema, apparentemente, funziona alla perfezione. Assicura una formazione utile perché programmata da imprese e rappresentanti dei lavoratori, e quindi non distorta, come spesso avviene, dagli interessi dei formatori invece che dalle esigenze reali. Ma qui arrivano i problemi. E non solo perché i fondi sono obbligati a sottostare alle normative degli appalti pubblici, in quanto si tratterebbe di un uso di fondi pubblici assegnati a enti privati. Ma soprattutto perché, essendo definiti come fondi pubblici, il loro utilizzo per singola impresa è assoggettato alla norma europea degli aiuti di Stato, che limita il possibile contributo di fondi pubblici per singola impresa al fine di non provocare distorsioni alla concorrenza.
Un limite che spesso fa slittare i tempi dell’approvazione dei piani formativi, rischiando di diminuirne l’efficacia e di comprometterne l’utilità per il lavoratore e per l’impresa, come ha raccontato lo stesso presidente di Fondimpresa, Bruno Scuotto.
Ed è stata proprio Fondimpresa, con 201.500 aziende iscritte di ogni settore e dimensione, insieme a Cgil, Cisl e Uil, a promuovere la richiesta di togliere il limite della normativa degli aiuti di Stato alle spese di formazione. «Il controllo degli aiuti di Stato risponde alla necessità di salvaguardare una concorrenza libera e leale all’interno dell’Unione», ha spiegato Scuotto in occasione dell’evento organizzato a settembre per i 15 anni di Fondimpresa. «In riferimento alla formazione finanziata noi riteniamo che non sia corretto parlare di un vantaggio offerto a beneficio della singola azienda che ottiene il sostegno alla formazione. Il sostegno incide sì, com’è ovvio, sull’azienda beneficiaria ma incide in misura ancora maggiore sul lavoratore che viene formato e vede accrescere le proprie competenze professionali». La logica è: attraverso la formazione, si sviluppano le competenze professionali del singolo. Si tratta quindi di un intervento a tutela delle persone prima che delle imprese. Nulla vieta infatti che, una volta formato, il lavoratore possa decidere di utilizzare le competenze acquisite anche anche in realtà aziendali diverse da quella nella quale ha ricevuto la formazione. In una logica di “occupabilità”, che è quella che oggi promuove la stessa Ue.
Proprio per questo motivo, il presidente di Fondimpresa ha anunciato di aver scritto agli eurodeputati italiani e al Commissario europeo Paolo Gentiloni per aprire un confronto sul tema. Tocca ora alle forze politiche, al governo e soprattutto alla commissione europea accogliere la richiesta. Una proposta che non dovrebbe incontrare ostacoli nell’Europa che ha scelto col fondo sociale di investire nella formazione professionale. Non solo giovanile.
Nei prossimi quattro-cinque anni – questa è la previsione – le aziende italiane rischieranno di non trovare 200mila profili per mancanza di una offerta di lavoro adeguata. E l’accelerazione verso l’impresa 4.0 farà crescere questa cifra. La risposta, è chiaro, non potrà arrivare solo dai sempre meno giovani che entrano nel mercato del lavoro. Servirà un investimento in formazione anche per chi è già presente nelle imprese.