Ci si prepara ormai alla fine della Guerra, il regime nazista è saltato, o sta per saltare. Tutti hanno altre preoccupazioni (come resistere all’arrivo delle truppe alleate) mentre il piccolo Jojo, dieci anni e soprannominato “rabbit”, cioè “coniglio” comincia a inventarsi un amico immaginario particolare: Adolf Hitler. Come dice A. O. Scott, del New York Times, questa trovata è la parte più strana e al tempo stesso più credibile di Jojo Rabbit, l’ultimo film di Taika Waititi (regista e anche interprete dello stesso Hitler), uscito in Italia il 16 gennaio, già nominato a sorpresa per il titolo di miglior film agli Oscar.
È la più strana perché apre un intero capitolo di surrealtà, in cui il Führer, rappresentato come una caricatura di se stesso (cioè come poteva figurarselo la fantasia di un bambino) diventa al tempo stesso un consigliere spirituale – e politico – un supporto psicologico nei momenti di difficoltà, uno spietato pungolo verso il dovere (nazista, si intende) in tutti i momenti di dubbio ed esitazione. Ma è anche la più credibile. Perché il resto, cioè la raffigurazione del regime nazista degli ultimi mesi, nell’attesa rassegnata della fine in una città della provincia tedesca (in realtà è girato in Repubblica Ceca), somiglia più che altro a un fumettone.
È una commedia, per carità. Nessuno si scandalizza se i gerarchi, a partire dal capo della HitlerJugend, sembrano innocui svitati o fanatici da cartone. Si vuole ridere, con ironia e leggerezza, lungo un filo narrativo che racconta la crescita di Jojo (Roman Griffin Davis), ragazzino nazista fanatico ma non credibile, dal padre lontano perché in guerra (così si dice), con la madre dolce ma assente (una magistrale Scarlett Johansson) e che si ritrova una ragazza ebrea nascosta in casa sua, per la precisione nella stanza della sorella maggiore, morta da poco.
È una situazione che apre a giochi, battute e parodie. Ma anche a un cammino di amicizia, fatto di disegni, lettere finte e un curioso libro compilativo sulle caratteristiche degli ebrei, che Jojo vuole scrivere per presentarlo ai gerarchi e ottenerne i complimenti. Ma le cose andranno in un’altra direzione, come dimostreranno le piccate scenate di gelosia dell’Hitler immaginario, scontento perché si accorge di perdere, oltre alla guerra, anche l’interesse del ragazzino. Tutt’intorno le situazioni di pericolo, cui si sommano alcuni momenti tragici e dolorosi, non incidono davvero nel senso del film, arrivano solo a sfiorare lo spettatore.
Non è necessario, del resto. L’obiettivo è il classico feelgood, dove sulle note dei titoli di coda ci si sente tutti un po’ più buoni. Quello che si è visto sarà una favola di tolleranza contro l’odio che si serve di cattivi da strapazzo (alcuni, addirittura, diventano buoni), con intermezzi sentimentali forse non necessari e qualche trovata retorica che funziona sempre («Il ballo appartiene alle persone libere», dice la Johansson).
Ecco, il rischio della benignata c’è: lo si vede nell’idea stessa di trattare l’Olocausto e il nazismo in modo leggero, riaffiora in alcune frasi topiche («Ce l’abbiamo fatta», alla fine), rischia di diventare preponderante nell’eccessiva semplificazione dell’ideologia nazista. Ma non prevale: Jojo Rabbit è salvato dalla qualità della regia, dalle interpretazioni degli attori, da una insolita una scelta cromatica che ricorda Wes Anderson e dal fatto che si tratta, in fondo, di una storia di crescita. Jojo si affrancherà dalle paure, dalle fantasie, dalla difficoltà di interagire con gli altri. E sarà istruttivo vedere nella realtà quanti, adulti o meno, troveranno il coraggio di prendere a calcioni il proprio Hitler personale.