Alfonsina non si era mai abituata a essere considerata un’assassina. Ogni volta provava distintamente il dolore di un uncino che le strappava le viscere. Durò un lungo momento, poi decise di rovinare la giornata agli sbirri.
«Non ho la patente e non so guidare». Questo lo sapevano già, allora calarono l’asso. «Abbiamo un testimone: al volante c’era un uomo. Anziano» disse il commissario. «Magari lo conosci, magari ci vai a letto, gli succhi il cazzo mezzo moscio e le palle cascanti». Alfonsina abbassò gli occhi e rimase in attesa della domanda successiva, scuotendo piano la testa. Questa volta non l’avrebbero fregata.
«Dunque» ricapitolò Pagano, «vivevi con l’avvocato perché eravate “amici”. Immagino che ti mantenesse». «No. Ho il mio lavoro». «Non l’avrei mai detto. E di cosa ti occupi?». «Sono affari miei». Pagano lo avrebbe scoperto presto, non appena sequestrato il computer e ficcato il naso nel suo conto in banca, ma era troppo addolorata, amareggiata e impaurita per non avere un atteggiamento ostile.
Scriveva libri per bambini sotto pseudonimo. Solo l’illustratrice e l’editore conoscevano la sua vera identità. In galera aveva preso l’abitudine di inventare fiabe per evadere dalla gabbia e riuscire ad addormentarsi senza tremare di paura. Quando lo aveva confidato a Tommaso, lui l’aveva convinta a trascriverle, ritenendo che prendere la penna in mano potesse aiutarla a razionalizzare l’esperienza penitenziaria.
Le fiabe erano belle al di là di ogni previsione e l’avvocato Fontana era riuscito a farle leggere alla persona giusta. Alfonsina, dopo il successo del primo libro, non poteva credere di aver trovato un lavoro grazie a un espediente per sopravvivere in carcere, ma dal suo destino così contorto aveva imparato ad aspettarsi di tutto.
L’interrogatorio era appena agli inizi, lo sapeva bene. La tenevano impegnata a sgranare il rosario mentre i loro colleghi perquisivano l’appartamento, passavano al setaccio la sua vita e indagavano sull’auto pirata, visionando i filmati delle telecamere. Buona parte delle loro azioni era illegale, ma lei non era una normale cittadina. Il suo avvocato, in seguito, avrebbe potuto lamentarsi nelle sedi opportune, giusto per fare un po’ di scena, per ricordare che le regole andrebbero osservate, che viviamo in uno Stato di diritto. Tommaso sosteneva che non era più vero, e su quel “più” litigavano puntualmente.
Poi la porta si aprì e lei vide una donna che entrava in un altro ufficio. Lo facevano apposta, per farle sapere che non le davano tregua. Nanà l’aveva riconosciuta. Era la proprietaria del bar di fronte casa sua. Un’insopportabile pettegola. Lei e Tommaso avevano rinunciato a frequentare il locale a causa delle sue occhiate impiccione e dei bisbiglii al marito e agli altri clienti. Comunque giudicò la sua apparizione un elemento positivo. Non poteva nuocerle in nessun modo.
Nanà aveva ragione. In un primo momento la barista eccitò le fantasie investigative dei poliziotti raccontando dell’uomo anziano che, proprio nell’imminenza del delitto, era andato a chiedere informazioni sull’avvocato con la scusa di un caffè. Un tizio mai visto prima, ma che era riuscita a descrivere minuziosamente. Subito dopo però aveva smorzato l’entusiasmo aggiungendo: «Un culattone. Si vedeva chiaramente».
«È sicura, signora?» aveva chiesto deluso il commissario.
«Era perfino truccato. Non in maniera vistosa, ma una donna se ne accorge».
E così era svanita la pista dell’amante anziano che uccide il suo predecessore. In realtà si era dimostrata inconsistente e fantasiosa fin dall’inizio, ma gli inquirenti non si arrendevano all’idea che Nanà Malacrida fosse del tutto estranea ai fatti. Le coincidenze non esistono.
Mentre gli sbirri elucubravano, Alfonsina cercava di rimanere concentrata. Aveva imparato a tenere lontane le domande assillanti, ma ce n’era una che spingeva per farsi largo: riguardava l’ipotesi di omicidio. Tommaso non aveva nemici. Lei nemmeno.
«Resta nascosta sotto un sasso» le diceva sempre Fontana. «È l’unico modo per stare tranquilla».
Nemmeno quando i suoi libri erano entrati in classifica tra i primi dieci per l’infanzia più venduti in Italia aveva trasgredito quella linea di condotta. Nanà voleva rimanere anonima, essere dimenticata, non fornire la minima occasione per tornare a essere un nome, una fotografia da sbattere sui giornali o sugli schermi televisivi per un delitto che non aveva commesso.
La morte violenta di Tommaso aveva vanificato in poche ore la rigorosa attenzione con cui aveva vissuto fino a quel momento. Dopo tanti anni si trovava in una situazione peggiore di quando era uscita dal carcere: sospettata di un altro delitto e ritornata a essere una notizia da sbattere in prima pagina.
Era perfettamente consapevole di come sarebbero andate le cose. Gli inquirenti non avrebbero trovato, quantomeno nell’immediato, il benché minimo indizio per incriminarla, ma avrebbero dato in pasto ai media e quindi ai social tutti i particolari della sua vita. Coloro che avevano dimenticato avrebbero avuto modo di rinfrescarsi la memoria, chi invece ignorava la vicenda avrebbe conosciuto un’unica verità, quella dell’ultima condanna. Sarebbe stata fatta a pezzi e giudicata colpevole in nome di quella giustizia emotiva che dominava il Paese e che ai poliziotti poteva tornare utile: magari saltava fuori qualcosa o qualcuno. Se il tribunale del popolo si fosse poi particolarmente accanito, poteva rendersi necessario andare comunque a giudizio, mettere insieme un po’ di circostanze e travestirle da indizi. Quando si arriva in Corte d’assise è raro che un imputato venga assolto. Magari succede in primo grado, ma in appello la giuria popolare può tranquillamente pensarla come i social.
Da giurista, Tommaso era stato un acuto osservatore di questa realtà e ne aveva paura. Gliel’aveva confidato quando aveva insistito per farle leggere un saggio di un filosofo tedesco-sudcoreano sul fenomeno dello Shitstorm. Lei aveva acconsentito giusto per fargli piacere. Ora sapeva che se dalla legge poteva in qualche modo difendersi, dai media e dai social era semplicemente impossibile. Avrebbe dovuto soltanto subire. Accuse, minacce, insulti. Niente e nessuno l’avrebbe protetta dalla tempesta di merda che si sarebbe abbattuta su di lei.
Gli sbirri l’avrebbero tenuta in quell’ufficio fino al mattino seguente, prima di arrendersi all’idea che Malacrida Alfonsina detta Nanà non c’entrasse nulla, o che negli anni fosse diventata così scaltra da non farsi fottere al primo fermo di polizia. Comunque, in assenza di una smentita clamorosa avrebbero continuato a sospettare di lei.
Infatti, quando Pagano tornò al lavoro fresco, sbarbato e profumato non ebbe la minima incertezza nel congedarla con un classico ragionamento da poliziotto: «Tu c’entri qualcosa e noi, prima o poi, lo scopriremo». Poi, mentre Nanà stava uscendo, le chiese: «Questa faccenda dei libri è vera? Sei proprio tu a scrivere le fiabe?».
Alfonsina si girò. «Sì» rispose, incuriosita dalla domanda. «Alle mie bambine piacciono. Gliele ho lette tante volte» disse il commissario, sinceramente imbarazzato, prima di liquidarla con un gesto della mano.
Nanà sapeva cosa lo disturbava: il fatto che scrivere fiabe non rientrasse in alcun modo nel profilo criminale redatto dai giudici che l’avevano condannata. A un certo tipo di delitto corrisponde un certo tipo d’autore, ma il commissario, da sbirro coscienzioso, non avrebbe mai messo in dubbio la sentenza.
Un taxi la condusse a casa. Lungo il tragitto guardo dal finestrino una città pronta a rifiutarla per la seconda volta. L’ingresso del palazzo era affollato di giornalisti, opportunamente avvertiti dalla polizia.
La tempestarono di domande, infilandole biglietti da visita ovunque, nel caso volesse rilasciare un’intervista esclusiva. Alfonsina si fece largo senza perdere la calma. Poi, quando riuscì a chiudersi il portone alle spalle, si lasciò andare a un lungo respiro di sollievo, aprendo così un pertugio al panico, che s’impadronì subito della sua mente e del suo corpo. L’unica difesa fu abbandonarsi e accasciarsi sul pavimento, svenuta.
da La signora del martedì, di Massimo Carlotto, edizioni e/o 2020, in libreria da oggi