C’è poco da fare, il dibattito politico ed economico, quando non è distratto da qualche elezione come quelle in Emilia Romagna e Calabria, è sempre fatalmente attratto dallo stesso argomento, le pensioni.
Più specificamente, come consentire ai nostri 60enni di ritirarsi anticipatamente dal lavoro. Si va dalla proposta di Gualtieri di un pensionamento a 64 anni con il calcolo interamente contributivo, comportando quindi una penalizzazione, a quella più radicale di Landini che vorrebbe mandare a riposo tutti a 62 anni, anche con solo 20 anni di contributi.
È del resto tristemente comprensibile che di questo si parli in uno dei Paesi più vecchi al mondo.
Tra l’altro, proprio la crescente età media degli italiani, complice la legge Fornero, ha prodotto nel tempo un effetto: dipendiamo sempre di più dai lavoratori over 60, sia per quanto riguarda l’occupazione, sia nei termini del gettito da essi generato.
A queste condizioni, un ritorno al pensionamento in massa a partire dai 62 anni provocherebbe un deciso peggioramento di tutte le statistiche sul lavoro, quelle che negli ultimi anni, anche un po’ inaspettatamente, sono sempre migliorate, nonché con tutta probabilità delle entrate dello Stato.
Sono i numeri a dircelo: sono proprio i lavoratori più anziani, gli over 50, ad essere cresciuti di più negli ultimi dieci anni (l’incremento è di più del 60%), mentre nel complesso aumentavano di meno del 3% i lavoratori tra i 15 e i 74 anni.
In Europa quasi in nessun Paese è accaduto qualcosa di simile. Solo in Austria e nelle piccole Malta e Lussemburgo il numero di 50-74 enni al lavoro è cresciuto di più del 61,5% italiano.
Neanche la Germania, Paese demograficamente anziano come il nostro e che eppure ha vissuto in generale un boom occupazionale molto superiore, ha fatto di meglio rispetto all’Italia tra l’inizio del 2008 e la metà del 2019. Semplicemente, in Germania il miglioramento delle statistiche sull’occupazione è in prevalenza dovuto all’aumento dei giovani che hanno trovato lavoro, piuttosto che ai 60enni che rimangono alla scrivania invece di andare in pensione.
La conseguenza è che la percentuale di over 60 e persino over 65 al lavoro è decollata in Italia.
Se il tasso d’occupazione degli under 59 è rimasto stabile o addirittura è calato, quello dei 60-64 enni in dieci anni è più che raddoppiato, passando dal 20,5% a più del 41,8%.
E anche la percentuale degli over 65 al lavoro è passata da poco più del 3% a più del 5%.
È particolarmente spiazzante il confronto con gli under 40. Il loro tasso d’occupazione è passato, tra il 1998 e il 2008, dal 53% al 57,1%, per poi scendere, nonostante la ripresa, al 49,1% odierno.
In un contesto in cui l’Italia, sul fronte del lavoro, è sempre rimasta lontana dai livelli europei, è proprio nelle statistiche sui tassi d’occupazione degli over 60 che il distacco si fa minimo, e in particolare crolla rispetto a quello del 2008, mentre oggi ci avviciniamo di più alla media UE.
A distanza di 11 anni, il gap del 9,6% nel tasso d’occupazione dei 60-64 enni diventa del 4,3%. Mentre nel frattempo cresce, dal 7,3% al 15,4%, quello riguardante i 15-39enni.
La dipendenza sempre maggiore del nostro Paese dal lavoro dei più anziani emerge chiaramente da questi dati. Un Paese in cui, più che altrove, trimestre dopo trimestre, la percentuale di 60 enni al lavoro si è avvicinata a quella dei 20 enni e 30 enni occupati. Del resto, è stata solo la prima a crescere nell’ultimo decennio.
Questo a differenza di quanto accaduto in Germania, dove il miglioramento è avvenuto per entrambi i segmenti, e persino in Spagna, dove tra passi avanti e indietro oggi hanno più lavoro rispetto a sei anni fa sia gli anziani che i giovani. E dove soprattutto questi ultimi godono di un tasso d’occupazione maggiore di quello dei coetanei italiani.
Per questo, molto più che altrove, uno smantellamento strutturale della legge Fornero, magari nella maniera desiderata dalla CGIL, significherebbe un deterioramento delle dinamiche occupazionali e un ritorno a statistiche occupazionali ancora più lontane da quelle europee. A meno di credere alla favola che vede al pensionamento di un anziano corrispondere sempre un’assunzione di giovane.
Proprio in un Paese come il nostro, poi, con una produttività del lavoro così bassa e in cui il prodotto marginale di un lavoratore è talmente scarso che in molte aziende sarebbe conveniente non sostituire affatto un dipendente che va in pensione.
Senza contare il fatto che questi occupati ultra sessantenni pagano le tasse, e le pagano anche più degli altri, se non altro perché, oltre a essere sempre di più, sono anche più ricchi.
Il ministero dell’Economia si limita a misurare i lavoratori over 64, che comunque sono passati da poco meno di 300 mila del 2012 a 467 mila e 700 del 2017, in base alle ultime dichiarazioni dei redditi disponibili, per un totale di +59,5%. Nello stesso periodo, il reddito che generano è salito da 13,7 a 18 miliardi (+ 31,5%) e il gettito IRPEF da 4,15 a quasi 5 miliardi (+19,1%).
Sono indubbiamente il segmento di età che ha messo a segno gli incrementi maggiori, mentre i 25-44enni non solo sono diminuiti per numero e reddito percepito, ma ancora di più per IRPEF pagata.
Tra l’altro, l’imposta media pagata dai lavoratori più vecchi è di circa 12.300 euro all’anno, molto più alta rispetto ai 6.400 di quella dei 45-64enni e ai 3.800 dei 25-44 enni.
Dovremmo forse prendere atto che un Paese vecchio come il nostro, con così pochi occupati rispetto al resto del mondo Occidentale, non può permettersi di rinunciare al lavoro e ai redditi di chi è ancora produttivo dopo i 60 anni, e forse, invece che spremersi le meningi e tirare al massimo una coperta cortissima per trovare il modo di farli ritirare prima dal lavoro, potrebbe provare a concentrarsi sul modo per colmare un gap molto più preoccupante, quello tra l’occupazione giovanile italiana e quella europea.