Dopo un anno e mezzo, il sovranismo populista ha perso il suo tocco magico. La spallata della Lega al governo non c’è stata. L’Emilia-Romagna è rimasta ancora al Partito democratico e il Movimento Cinque Stelle ha eletto solo due consiglieri ed è sprofondato sotto la doppia cifra anche in Calabria. Fermi tutti, un’elezione regionale rimane un’elezione regionale: una candidata impreparata e scialba, il movimento spontaneo delle sardine, numeri solidi dall’economia alla sanità sono variabili difficilmente replicabili su scala nazionale. Non faremo l’errore di giudicare un evento locale in un trend nazionale. Ma è stato lo stesso Salvini a trasformare questo voto in un referendum: o me o il governo. E così dopo Molise, Friuli-Venezia-Giulia, Valle d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte e Umbria la Lega ha perso per la prima volta. Come ha fatto notare Lorenzo De Sio, direttore del Cise, centro italiano studi elettorali dell’Università Luiss di Roma, Salvini ha talmente politicizzato lo scontro da aver causato la sua reazione: la contro-politicizzazione delle Sardine. E così per paradosso ha mobilitato più la sinistra della destra. Nei comuni dove era più forte la sinistra è aumentatata la partecipazione, mentre è diminuita dov’era più forte la Lega. Rispetto alle elezioni europee il Carroccio ha perso settantamila voti in Emilia Romagna e ha dimezzato la sua presenza in Calabria, dov’è il quarto partito.
Queste due elezioni regionali dimostrano che il sovranismo populista capace di trionfare come un panzer con i colori gialli o verdi dal 4 marzo 2018 a oggi non è una narrazione invincibile a qualsiasi latitudine. E visti i tempi è una notizia. Non sono bastate le dirette Facebook fiume, il vittimismo, la retorica da strapaese in cui ci si appropria dell’identità locale e delle sue eccellenze, l’uso della famiglia e della religione, l’esaltazione di valori di buon senso ridotti a uno stereotipo da Pane amore e fantasia, una politica di pancia che fa leva sulle paure. Finora erano stati gli ingredienti di una ricetta perfetta adattabile ai particolarismi di ciascuna regione: da Trento alla Sardegna, dalla Valle d’Aosta all’Abruzzo fino all’Umbria. Questa volta non è servito neanche suonare citofoni o ballare su TikTok. «In Emilia non si esagera mai», ha detto sornione Romano Prodi al Corriere della Sera.
«Salvini si è fidato troppo di se stesso. Come dicevano le nostre nonne quando eravamo bambini: “Ha avuto gli occhi più grandi della pancia”», spiega Giovanni Orsina, politologo e direttore della Luiss School of Government, «Se guardiamo alle liste ci sono solo due punti di distacco tra centrodestra e centrosinistra. Uno straordinario risultato per la destra visto che in Emilia-Romagna in questi decenni non c’è mai stata partita. Se Salvini avesse vinto anche lì sarebbe stato inarrestabile. Ma la Lega nell’asse Bologna-Modena-Reggio Emilia Salvini stava giocando fuori casa. Sarebbe stato come fare 3 goal al Real Madrid al Bernabeu». Una trasferta difficile, vero. Per questo nelle previsioni bisognerebbe tenere il profilo basso. E invece a Maranello, con il cappello della Ferrari in testa, Salvini si era detto sicuro di battere Bonaccini. «Se io ho un desiderio non è vincere in Emilia-Romagna, ma stravincere».
Con la sconfitta in Emilia si è aperta una crepa che potrebbe richiudersi presto o diventare una voragine. Non abbiamo la sfera di cristallo ma una macchina fotografica per immortalare il momento: il sovranismo populista può essere arginato. «Il discorso nazional-populista di Salvini non è un grimaldello universale. E come tutte le cose umane è battibile. Per farlo però servono tante cose: un radicamento territoriale come quello che ha il Partito democratico in Emilia Romagna, un candidato forte come Bonaccini e una mobilitazione dal basso come quella delle sardine. Sono componenti peculiari. Non irripetibili ma neanche facili da ricreare in ogni tornata elettorale», spiega Orsina.
Il Re Mida della Terza Repubblica non riesce più a rendere sovranista tutto ciò che tocca? Come certi allenatori di calcio, registi cinematografici e cantanti di successo, anche i politici possono perdere la loro abilità realizzare il loro obiettivo superando qualsiasi fattore esterno. Il problema per il leader della Lega è che il format si è sbiadito proprio nel momento in cui serviva di più. Senza la spallata, il governo giallorosso rimane in piedi. Ora ci saranno le 400 nomine di dirigenti pubblici che ridisegneranno la mappa del potere economico in Italia: Eni, Enel, Leonardo, Poste Italiane, Terna. Ma anche il semestre bianco di Mattarella nella seconda metà del 2021, in cui per legge non si potrà andare al voto e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica a inizio 2022.
A meno di intrighi di palazzo o fughe di parlamentari della maggioranza verso l’opposizione, il governo giallorosso durerà ancora due anni. Reggerà la narrazione del sovranismo populista? «L’ondata d’insoddisfazione rimane. Salvini ha ereditato il testimone del Movimento Cinque Stelle che alleandosi con il Partito democratico non possono più rappresentare gli scontenti. Anche perché l’insoddisfazione era contro i Dem», spiega Orsina. «Salvini continuerà a fare l’operazione portata avanti finora. Alternerà con ambiguità il ruolo di leader di piazza e quello istituzionale. Ci saranno altri gesti eclatanti come quello del citofono e poi ci saranno dichiarazioni da capo responsabile. Ma più passeranno i mesi, più Salvini dovrà ripensare la propria strategia. A forza di spallate rischia di lussarsi».