Il 31 dicembre 1999, un giovane e quasi sconosciuto Vladimir Putin è diventato presidente ad interim della Russia, dopo le dimissioni improvvise di un Boris Eltsin ormai in semidecomposizione fisica e politica. Nella notte in cui il resto dell’umanità temeva il tilt provocato dal Millennium Bug dei computer, i russi si stavano interrogando su questa improvvisa svolta del loro destino, chiedendosi se anche il piuttosto anonimo neopresidente si sarebbe rivelato un bug del Cremlino. All’inizio del 2000 di lui si sapeva talmente poco che a Davos i giornalisti occidentali hanno rivolto alla delegazione del governo russo l’imbarazzante domanda “Who is Mr Putin?”, seguita da un altrettanto imbarazzante silenzio come risposta.
Vent’anni dopo sappiamo che, per usare il gergo dei primi programmisti russi, Putin “non è un bug, è una ficha”, una storpiatura dell’inglese “feature”, quindi non un errore del sistema, bensì una sua funzione nascosta, a volte perfino cruciale per il funzionamento stesso del gioco. Ha più capelli grigi, righe e sanzioni, ma è al potere da vent’anni, la sua faccia è conosciuta in ogni angolo del mondo, è l’autore della prima annessione di un territorio dell’Europa del dopoguerra, è l’idolo dei conservatori uniti di tutti i Paesi e il cattivo preferito dei liberali, e i suoi hacker propagandano il suo verbo nella Rete mondiale in un inglese molto meno maccheronico dei loro padri.
Un presidente per caso diventato il leader russo più longevo dopo Stalin, un esempio vivente di come la politica resti uno dei campi più imprevedibili delle attività umane. Nei social russi gira in questi giorni un delizioso meme che raffigura il celebre fotogramma di Mamma ho riperso l’aereo, nel quale il piccolo Macaulay Culkin incrocia nella hall del Plaza di New York Donald Trump. Nel meme, Trump, politicamente scorretto come suo solito, dice al piccolo attore: «Diventerai un tossico». E il ragazzino ribatte prontamente: «E tu verrai messo sotto impeachment per colpa del vincitore del concorso di teatri comici studenteschi del 1997». Vent’anni fa, Putin era un oscuro ex funzionario del Kgb pietroburghese, Trump un magnate immobiliare amante del jet set e Vladimir Zelensky un comico esordiente della provincia ucraina. Resta da chiedersi su quali meme rideremo nel 2040.
L’unica previsione scontata che si può azzardare per il 2020 riguarda il bug centrale del sistema operativo globale degli ultimi anni, Donald Trump. Nel 2020 diventerà chiaro se è un errore, che dopo aver mandato in tilt ripetutamente il funzionamento di server e software, verrà corretto e messo in sicurezza, o se si scoprirà piuttosto un virus che ha ormai infettato il disco rigido e iniziato a clonarsi. L’esito dell’impeachment e dell’eventuale rielezione di Trump non è solo il plot politico più avvincente del 2020, è lo snodo dal quale si biforcheranno due sviluppi opposti del futuro non solo americano. Basta immaginarsi l’esercito dei Salvini, Le Pen, Bolsonaro e brexitari privati del sovranista più potente e riuscito del mondo. E in alternativa immaginarsi gli stessi personaggi in compagnia di un Trump che sfugge al processo del Congresso e si fa rieleggere trionfalmente, l’idolo della “gente semplice” scampato ai complotti della malefica élite liberale e globalista.
Tra i molteplici scenari destinati a cambiare radicalmente in entrambi i casi – il rapporto con la Cina, il caos in Medio Oriente, le sorti dell’Unione Europea, le sventure di alleati abbandonati che rischiano di fare la fine dei curdi – quello forse più interessante riguarda però proprio Vladimir Putin. Il Cremlino ha scommesso esplicitamente sulla candidatura di The Donald nel 2016, non tanto perché sperava in una sua vittoria quanto perché era terrorizzato dalla prospettiva di dover scontrarsi su Crimea, Ucraina e Siria con Hillary Clinton. Il Russiagate nasce insieme alla presidenza Trump e continua ad accompagnarlo. La vittoria di Trump a Mosca è stata celebrata in banchetti con fiumi di champagne alla Duma, e per quanto Putin se non altro per la fredda diffidenza del suo carattere si era astenuto da troppi entusiasmi, le aperture di credito che aveva fatto al neo presidente americano ancora prima del suo insediamento erano state enormi quanto la delusione cocente che ne è seguita. Putin è stato forse la vittima più illustre del bipolarismo di Trump, che nei suoi confronti passava da proclami di simpatia e dichiarazioni che a dire il vero non avevano nessun fondamento nella realtà (come l’idea che il presidente russo avrebbe aderito a una crociata anti-islamica, con una ventina di milioni di musulmani tra i suoi sudditi e con un islamista fedele alla sharia come Ramzan Kadyrov come sostenitore più sfegatato), a grappoli di nuove sanzioni e bombardamenti dei campi russi in Siria, un conflitto che – sarebbe ora di ammetterlo – dal 2015 è stato essenzialmente una guerra per procura tra russi e americani.
Pur ammettendo sconsolato che con Trump i rapporti tra Mosca e Washington hanno raggiunto un record negativo – Putin è arrivato a un certo punto quasi a rimpiangere pubblicamente il detestato Barack Obama – il Cremlino cerca di superare la delusione adottando la visione trumpiana del mondo: Trump sarebbe anche dei nostri, ma il deep state americano lo condiziona e lo blocca. Alla sua conferenza stampa di fine anno il solitamente cauto Putin ha fatto un endorsement senza precedenti di Trump, sposando in pieno la sua propaganda sull’impeachment, “lanciato con un pretesto inventato” dai democratici che “vogliono vendicarsi per la sconfitta del 2016”. È evidente che se nel 2021 alla Casa Bianca si insedierà un presidente americano che non si chiamerà Trump, Putin dovrà pagare questa dichiarazione di solidarietà a un prezzo che potrebbe rivelarsi troppo caro per le sue già limitate risorse economiche e diplomatiche. Ma si rende anche conto che un presidente democratico, molto probabilmente, lancerà contro il Cremlino un’offensiva molto più ordinata e coordinata, e toglierà il patronato ideologico a molti suoi alleati della destra europea, che potranno ovviamente continuare a frequentare i salotti moscoviti, ma più in cerca di rifugio che di un’alleanza strategica. Se però il presidente russo ha deciso di scommettere il tutto per tutto su una rielezione di Trump, aiutandolo con metodi già noti come i troll e i hacker, potrebbe semmai di danneggiare il suo amico-nemico americano, rischiando di lasciare finalmente la prova della “pistola fumante” mancata finora nelle indagini sul Russiagate.
Un’altra partita fondamentale il cui esito dipenderà dal primo martedì dopo il primo lunedì del novembre 2020 si svolge sempre a Est, e riguarda sia la Russia che l’Europa, oltre che forse la sopravvivenza di un Paese intero, l’Ucraina. Vladimir Zelensky, “The Middle Man”, l’uomo finito in mezzo tra Putin e Trump, come lo ha chiamato il Time onorandolo di una copertina, è riuscito a dicembre a costringere Putin almeno a far finta di riprendere il negoziato sul Donbass, spalleggiato senza entusiasmo da Merkel e Macron, leader di un’Europa infestata dal sovranismo che in questo momento ha paura solo di pensare a un allargamento. Ma sa che la sopravvivenza del suo Paese in guerra con la Russia dipende soprattutto dall’alleanza con gli Stati Uniti. Un Trump rieletto probabilmente farebbe pagare a Kiev il pur educato rifiuto di partecipare ai suoi regolamenti di conti con Biden, sacrificando definitivamente gli ucraini ansiosi di unirsi all’Ue alla sua visione geopolitica da bar sport, e regalando a Putin la vittoria in una guerra già persa sul campo, quella nel Donbass.
Uno scenario che tra le sue varie conseguenze avrebbe quella di ridare fiato a una Russia che sfida l’Occidente e l’Europa, e di mostrare a tutto il mondo che l’America scarica senza pietà i suoi alleati più fedeli. Per il Secondo, Terzo e Quarto mondo sarebbe una lezione di cinismo, che manderebbe in soffitta per anni ogni idea dei principi, dei valori della democrazia e della libertà, e soprattutto della loro diffusione oltre le aree storiche della rivoluzione francese e della Magna Carta.
Putin, un politico ormai navigato e sopravvissuto a crisi pesantissime, e Trump, un dilettante che si muove nella cristalleria della diplomazia con la grazia di un elefante, sembrano paradossalmente legati dal destino. Restano dei bug della politica internazionale, nemmeno per le idee che rappresentano, ma per il modus operandi. Entrambi sono assurti alla carica suprema senza aver fatto una gavetta. Entrambi hanno costruito il loro successo su tecnologie di immagine spregiudicate e populiste. Entrambi sono inclini al bullismo, imparato dal primo nei cortili dominati dalle gang di Leningrado e nei corridoi del Kgb e dal secondo nei negoziati con palazzinari di New York. Entrambi credono nei complotti e non si fidano di nessuno se non della propria “famiglia”, incapaci di comprendere e abbracciare le regole del sistema. Entrambi concepiscono il potere come una partita personale, un gioco a somma zero dove il compromesso equivale alla debolezza, e la debolezza equivale alla sconfitta.
Il primo da bug è già diventato una feature, complice un sistema politico che per tradizione tende alla monarchia assoluta, il secondo resta per ora un bug, rigettato da un sistema operativo diametralmente opposto al suo modus operandi, ma impotente per ora nel disattivarlo. La strana coppia di gemelli diversi composta da un proletario dei bassifondi sovietici e dal figlio privilegiato di un magnate di Manhattan merita un romanzo, o meglio, una sceneggiatura hollywoodiana, che un giorno verrà senz’altro scritta. Per il momento, nel 2020, si deciderà se gli anni Venti saranno il decennio del bug globale.