JeffersonWilson faceva politica, per Trump tutto il mondo è bottega (sua)

L’interventismo del ventottesimo presidente Usa a favore dell’autodeterminazione dei popoli è l’esempio della forza che ha mosso l’azione estera statunitense, principalmente, è vero, per tutelare i propri scopi commerciali. Ma oggi, con The Donald, siamo al puro interesse di bottega

Brendan Smialowski / AFP

Il 10 gennaio 1920 entrava in vigore la Società delle Nazioni insieme alle provvisioni del trattato di Versailles. Il trattato era stato forgiato dalle potenze dell’Intesa uscite vincitrici dalla Grande Guerra: Francia e Gran Bretagna in primis. Ma a forgiarne l’ampia visione di riordinamento dei rapporti tra nazioni all’indomani fu senza dubbio la delegazione americana, guidata dal presidente Woodrow Wilson: come affermato dallo storico Marco Mondini su La Lettura, la delegazione americana non era all’altezza delle aspettative messianiche generate dalla visione di Wilson: una nuova era delle relazioni internazionali, scaturita dalla moralità dei leader delle nuove entità statuali create in seguito all’attuazione del “principio di nazionalità”: ogni etnia aveva diritto ad avere un proprio governo. Un principio astratto che provocò sin da subito il malcontento della quarta delegazione vincitrice, quella italiana, che si ritrovò senza Fiume e la Dalmazia, a maggioranza croata, come pattuito a Londra nel 1915. In questo nuovo armonioso stato di cose gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire come un “faro morale” e, per citare un suo discorso durante la campagna elettorale del 1912: «Siamo stati scelti perché dobbiamo mostrare alle nazioni del mondo come camminare nella lunga strada verso la Libertà». Questo tono da predicatore (forse reminiscenza delle omelie di suo padre Joseph, pastore presbiteriano in Virginia) nascondeva un’attitudine più sinistra di quanto sembrasse. E Wilson aveva già avuto la possibilità di poterlo mettere in pratica su scala più ridotta: nel cosiddetto “giardino di casa”, quell’America latina nella quale il governo di Washington esercitava una sempre maggiore egemonia, dopo i risultati della guerra con la Spagna che davano agli Stati Uniti le chiavi di un controllo pressante anche sulla politica interna dei singoli paesi. A cominciare dal più vicino, il Messico, con cui le relazioni erano già deteriorate da tempo a causa dell’intervento dell’ex ambasciatore Henry Lane Wilson nel deporre violentemente il presidente democraticamente eletto Francisco Madero: qui Wilson, attraverso il nuovo inviato diplomatico John Lind, continuò a tenere lontano dal potere gli elementi più radicali come Pancho Villa ed Emiliano Zapata per mantenere inalterate le proprietà delle multinazionali americane del petrolio: nell’aprile 1914 le truppe americane invadono la città di Veracruz proprio per mantenere forte la presenza americana. A proposito del Messico, Wilson si espresse con maggiore chiarezza: «Voglio assicurarmi che i paesi del Sudamerica eleggano dei bravi uomini!». Ovvero favorevoli agli interessi americani. Ma facciamo una breve carrellata degli interventi effettuali dalle moralissime truppe americane intervennero durante la presidenza Wilson:

  • Haiti: la preoccupazione americana per le infiltrazione del capitale tedesco nell’economia dell’isola culminò con l’omicidio da parte di una folla inferocita del presidente Vilbrun Guillaume Sam, che si era reso colpevole dell’omicidio di 167 oppositori politici. Il 28 giugno 1915 vennero inviati 330 marines. L’obiettivo era riscrivere la costituzione haitiana in modo da consentire la proprietà straniera di imprese haitiane. L’autore della nuova Carta fu il sottosegretario alla Marina Franklin Delano Roosevelt. L’occupazione andò avanti fino al 1934.
  • Honduras: A partire dal 1899 gli interessi delle due compagnie della frutta United Fruit e Standard Fruit portarono a numerosi interventi da parte delle forze armate americane per tutelare gli interessi delle due compagnie. Sotto la presidenza di Wilson, una volta sola: l’11 settembre 1919. L’espressione “Repubblica delle Banane” venne coniata per questo paese dallo scrittore O.Henry nel 1904.
  • Nicaragua: qui l’occupazione era in corso dal 1912, voluta dal presidente William Howard Taft per evitare che le potenze europee realizzassero un canale parallelo a quello di Panama, che verrà poi inaugurato dagli Usa nel 1914. Nel 1916 viene siglato il trattato Bryan-Chamorro che concesse agli Stati Uniti i diritti perpetui sulla costruzione di un eventuale canale, più l’affitto di due isole, per la cifra di tre milioni di dollari. Nel 1970 il trattato venne rescisso dalle due nuove controparti, l’americano Nixon e il nicaraguense Somoza. E il canale che fine fece? Nel 2013 il governo di Daniel Ortega concesse i diritti per la sua costruzione a un consorzio cinese, ma l’accordo è scaduto lo scorso 12 settembre, senza che i lavori siano partiti.
  • Repubblica Dominicana: le truppe di marina sbarcano sulla repubblica ufficialmente per proteggere la delegazione diplomatica americana il 5 maggio 1916. In realtà il paese rimane un protettorato americano fino al 1924, completamente privato della sua sovranità. Tra le difficoltà dell’occupazione, la scarsa conoscenza dello spagnolo dei governatori militari inviati da Washington (nella foto la fortezza di Ozama con la bandiera americana).

La sinistra visione messianica di Wilson si applicò anche alla neonata repubblica sovietica: inviò due contingenti di truppe statunitensi in Russia, ad Arcangelo e a Vladivostok. Ovviamente “per favorire la democrazia e l’autodeterminazione del popolo russo”. Ma fu proprio lo scontro con le truppe del Kaiser in Francia nel 1918 (non bisogna nemmeno dimenticare la partecipazione sul fronte italiano di un reggimento di fanteria) che la visione wilsoniana trovò compimento: le armate della democrazia contro quelle dell’autoritarismo germanico e barbaro. L’occasione per forgiare non solo un nuovo ordine mondiale, ma anche una nuova America. Aiutandosi con due strumenti: uno lo abbiamo già descritto in una precedente lettera, e fu il Committee of Public Information, un’agenzia con cui indirizzare la stampa e sopprimere le notizie scomode. L’altra un combinato disposto di leggi repressive, come l’Espionage Act del 1917 e il Sedition Act del 1918, contribuì a un clima di terrore interno prima diretto contro la minoranza tedesca, poi contro i movimenti di sinistra. Infine il clima propagandistico sul fronte interno fu tutt’altro che inclusivo, anzi: esacerbò i contrasti interni dal punto di vista razziale e sociale: come scrive Eric Foner in Storia della Libertà Americana, la guerra spinse a una svolta repressiva senza precedenti negli Stati Uniti «rendendo illegale le critiche accese sia al governo che al sistema economico prevalente. L’ironia fu che la guerra fatta “per salvare la democrazia” portò a un forte restringimento dei diritti in casa, come esemplificato da questa vignetta del New York Herald del 1919, con un soldato americano che punta la mitragliatrice contro una folla di manifestanti facinorosi:

Pur condividendo con il suo predecessore un razzismo profondo e radicato, Donald Trump non pretende nemmeno di fare gli interessi della democrazia nel mondo, ma una concezione proprietaria del Paese, dove gli interessi di bottega contano di più. Ecco perché, quindi, anche se l’assassinio di Solemaini, quando ad aggressività improvvisa, ricorda un po’ il cambio di programma apparente dopo l’intervento wilsoniano nella guerra, per Trump le decisioni sono sempre prese sul filo dell’istinto. E questo gli dice: abbandona il Medio Oriente. Tanto sono cavoli dell’Europa, nel peggiore dei casi.

(Tratto dalla newsletter Jefferson-Lettere sull’America. Per iscrivervi cliccate qui)

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